08/10/16

Nebula in fabula.




        
             Acredini inutili in un ambito dove se non ci si allea si e' destinati alla morte. Deserto, escursione termica, con il suo intollerabile calore e con il lungo brivido del gelo della notte. Meglio rinunciare alle esigenze dei singoli, ma soprattutto e' necessario lasciarsi indietro i capricci di priorità che obbedirebbero ad una routine di una vita normale.
In un clima dove e' così difficile resistere, dove e' necessario unirsi e assaporare quel venti per cento verso cui il nostro corpo si riduce e si appiattisce per donarci una sola possibilità, meglio abbandonare le sferzate di tutte quelle inquietudini dovute ai propri scopi. E occorre alleggerirsi su una obbligata convivenza, dove un estraneo può rivelarsi una persona conosciuta e dove ci si può accorgere che anche una persona conosciuta possa essere in realtà soltanto un estraneo col quale non si ha nulla a che fare.
Si finisce per affinare le proprie sensazioni, e si entra nella sfera delle affinità e delle possibilità di incontro comportamentale. Ogni spazio esplode divenendo al tempo stesso una parete concentrica dove arrampicarsi ed una mescola delle rispettive intensità. Condivise e non, fra le misture di dolorose rinunce e nuove motivazioni, si dilatano fra freddo e caldo torrido come le impronte lasciate a testimoniare quel che ad altri sembra solo un passaggio.
Carovane di gente o due persone, equipaggiati di materiale tecnico oppure solo di buona volontà. Si finisce per cancellare contrasti e convergere al fine di non vedere terminate le proprie vite. Un dipinto che si va delineando nella forma, come un ambiente ove l' angolazione del sole nel cielo gestisce e muta l' umore. Madide fronti e dispersione di liquidi per reagire al calore assomigliano a quella vernice dei pastelli che spennella sulle tavole pronte ad accogliere. Così la tela e' il corpo ed il colore quel che il corpo prova.
Avvertire, fuggire, morire. Scuole e stili, aghi o pennelli, cospargere del proprio passaggio quell' ambiente e sperare di poterlo firmare alla fine dell' opera. Ma di tutte quelle gocce che cadono al suolo chi ne ha contezza? Terribili tempeste di sabbia fra dune ed insetti in grado di resistere a quelle proibitive condizioni, mentre l' individuo, gli individui stanno soffrendo senza soluzione di continuità per poter vivere. Ed alla pittura restituisce contezza e confine, fra sudore disperso e liquidi da assumere con parsimonia.
Onde, magnetiche elettriche o di marea. Elementi, e negli elementi scosse e repliche che vanno dilatandosi. Quasi una ecchimosi che come traccia affonda fra la cute e le carni sincerandosi di rimanere per il resto del tempo che si deve attraversare, e che prende la forma di una cicatrice che ci dovrà tenere compagnia. Opera Omnia, quelle tracce e quel tempo dedicato a quell' ambiente così grave. Lascia delle scie di ricordo fra le pagine di vite che come libri sono scritte e che come le fronti della carovana si abbandonano silenti ad un destino contro il quale nessuno può far nulla in più che resistere.


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25/09/16

Risvegli.




          Che poi la sensazione di quel freddo non la perdi mai. Si può poggiare addosso come dei cristalli che, minuscoli, comprimono portando la tua pelle a dilatarsi ed a restringersi, come se fosse anch' essa un cuore che dentro i tuoi tessuti pulsa. Nudo istinto e la frizzante sopraggiunta volta autunnale che risveglia. Abbandonate le madide nottate a rigirarsi per poter resistere a quello sfiancante incatenato calore, germogli di nuove intense scosse affiorano come se elettrico i mio corpo si destasse sotto cumuli di cenere compressa. Frane di ciottoli convogliano dentro le stanze di una scena che riprende il suo trascorrere da un vetusto playback, dove vigori nuovi a desolante polvere rispondono come ruscelli pronti ad irrorare e a ripulire levigate superfici di quelle pareti cutanee che solo pochi momenti prima erano unte. Sporcizie di una Estate trascorsa a tergere e ad asciugare sotto i feroci colpi di un abbandono che sa di elevazione in una ionosfera ove l' ossigeno invece di scarseggiare, abbonda. Rilascio calori come fossero zavorra, e in una prima evanescente mongolfiera che via via si fa più nitida, sollevo le mie idee che sono insieme a tutte quelle sensazioni di quel vuoto strano che dentro mie pressioni adesso lentamente io abbandono. Crimini di ciottoli rappresi e lucidi, solleva il sogno in un costante impatto di pietruzze sminuzzate e gelo. E allora, solo allora ascolto il fuoco, quel fuoco che in me si perde per quei centoventi giorni dedicati alle emozioni aride, dove il dannato amante scalda i freddi cuori e dove non ribollono le anime che invece incendiano nottate umide di inverni lunghi e di buie nottate. Ritrovo me, dentro al letargo emotivo di quei liquidi ed incauti sciamani delle predizioni, dove ho ascoltato musiche lontane fatte di frane e passaggi di vento basso a musicar le fronde. Aria non c' era, e fra le beghe di una soporifera giornata trascorsa all' ombra, invece di dissetare me, lasciavo solo che fuggisse via per ritardare il senso delle cose e di questo sollievo che ora aspetto e godo levigandomi in attesa del mio nuovo sogno. Concentriche, spasmodiche, corrono via come i rimbalzi di una pietra piatta sulle liquide convesse curve di un piccolo lago, propagandosi come gli anelli di Saturno in una regola compressa dentro un diapason dal quale esce la nota. Ristora il fresco al tatto, e fra le modiche spese per l' attesa, va ad incidere su umori nuovi e voluttà perverse fra gli sciami di un pulviscolo che fa fuggire via gli insetti come delusioni, e si allontanano codarde lasciando nuove strade a nuovi piani scoscesi comodi e dai quali ci si può osservare bene. Collassa il calore e mi abbandona, tornando al vecchio modo di intendere il respiro stesso, mi crogiolo nelle dimenticate percezioni di una sagoma che di confine se ne intende bene. Ascolto il freddo riscaldando, incendiando il sangue, che ribolle gaio fra i suoi vasi e che permea sapientemente, e sebbene stiano passando nuove stagioni, negli anfratti ove me stesso e' uso albergare per il letargo, mi riconosco e mi beo di tutto quel che affiora e che ricordo. Esili che patisco anno dopo anno, esili da me. Costretto a rovistare fra le nuvole e fra il cielo nell' attesa di un nuovo Autunno che abbandona foglie per rinvigorire pianta. Perse vanno via, di cose futili a barili, lasciando la coscienza ed il senso primo di una vita cui mi sento di appartenere in toto, dove anche la solitudine di alcuni momenti può essere consigliera se non alleata ed amica, e dove essa stessa può gridare alla vita che lei si può riprendere quello che per centoventi giorni e' stato celato sotto le ceneri di quell' odioso amante troppo vicino.


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08/09/16

Lettera aperta a Maurizio.





        Per come la vedo io, caro Maurizio, più fanno così e più sono contento. Hanno timore che il gioco gli si impalli, e riuscire a fare questo sarebbe già tanto, perché le pecore che hanno preceduto Virginia Raggi, sia a sinistra, sia a...se la vogliamo chiamare così...a destra, non hanno accettato lo stato di cose, loro "erano" lo stato di cose, perché allineati ai voleri di altri da sempre.
Vedi, talvolta mi dicono...ma tu eri di destra e adesso voti Movimento 5 Stelle... Io rispondo si, e voto Movimento 5 Stelle proprio perché sono di destra, e lo dovrebbe fare anche una persona che vota a sinistra, perché con questo fatto dell' ideologia, dei temi, della sinistra e della destra, ci hanno intortato bene bene, e non vedo altra via di uscita se non quella di confonderli.
Ci hanno riempito e ci stanno riempendo di sganassoni da 70 anni a questa parte, raccontandoci la più grande bufala del Ventesimo Secolo, ovvero la Democrazia. Ci hanno anche fatto credere di essere liberi, ma in realtà si sono adeguatamente applicati, ed in maniera molto minuziosa, a lavorare da decenni proprio per costruircelo dentro la testa questo dannato recinto.
Siamo convinti di essere liberi ma non ci rendiamo conto che facciamo esattamente tutto quello che vogliono. Ci fanno la Nectar per fare la spesa, o la tessera della Coop per risparmiare, sono transazioni tracciate, due pentole e tre piatti di coccio in omaggio da mettere in vetrina e che forse non useremo mai in cambio dei cazzi nostri. Ci danno il Telepass e ci dicono che non ci costa nulla e non facciamo fila, anche questo in cambio dei cazzi nostri. Ci hanno munito di Bancomat, Carte di Credito, Carte di Debito, Postepay e quant' altro, e intanto sanno tutto delle nostre transazioni, insomma i cazzi nostri. Il problema non e' neanche chi evade, ma il controllo. Uno che controlli, se non fa quello che dici lo puoi spegnere una volta che le transazioni non avverranno più con la liquidità.
Poi ci danno la tessera della benzina, sconticino...? Sempre in cambio dei cazzi nostri. E adesso la Tessera del Tifoso. Pensi davvero che il problema sia la violenza? Il controllo, abituare le persone ad obbedire, oltre ai cazzi nostri. Si nutrono delle nostre fragilità. Non arrivi a fine mese...Nectar. Vai di fretta...Telepass. E poi guai ad andare in trasferta sprovvisto di Tessera del Tifoso, potresti scoprire qualche posticino dove si mangia bene e si spende poco se paghi in contanti.
Potrei andare avanti per ore, lo schema e' sempre lo stesso: crearti una esigenza per servirti una soluzione potenziale. Così facendo rendono meno voluminoso il quantitativo di flottante che se ne gira per il mondo...dici a te che te frega...ad uno che fa speculazioni se invece di spostare liquidi sposta in via telematica sarà un pò meglio credo. Pensa alle Epidemie. Tre settimane di Suina per venderti il vaccino. Poi l' Ebola, e non si sa quanti soldi hanno speso i Sistemi Sanitari Nazionali per munirsi del vaccino. E allora perché non far vedere una vacca che balla il rap e magari macellarne un centinaio e mandare in onda il video...magari hai delle scorte di pollo che stanno andando a male e le devi vendere. E allora perché non fare lo stesso con l' aviaria. Magari dovevi dare via un pò di conigli, o di mucche stesse, per restituire il favore.
Il cip del cellulare, quello del digitale terrestre, sanno sempre dove sei e cosa stai facendo, però ci raccontano che siamo liberi e ci fanno firmare la legge sulla privacy.
No! Noi dobbiamo essere liberi, ma entro i confini che decidono loro. Sono confini che già da tempo non si basano più sulle semplici e basilari regole del rispetto reciproco, e siccome ci stanno impiegando troppo tempo minano le fondamenta della Famiglia per creare un esercito di idioti, di clienti che chiedono una merce che e' loro: vita.
E le persone si prostrano mostrando le terga in maniera autonoma, di loro sponte, credendo però di essere libere. E' molto semplice, una cravatta sociale basata sulla diffusione della non consapevolezza e sull' ignoranza. Far credere che non e' possibile che accada...ma invece accade! Si può fare ed accade.
Dunque, fra tutti questi sganassoni che prendiamo, se vogliamo restituirne qualcuno, l' unica soluzione e' quella di confonderli, non devono capire da dove arrivano. E nel mentre che perdono tempo a rompere i coglioni, li possiamo annientare utilizzando le loro stesse regole.
Stiamo craccando il loro sistema, per riformattarlo di sana pianta. Possediamo la memoria remota, che deve solo essere recuperata e istallata di nuovo. Loro nel mentre parlano e continueranno a parlare fra loro come dei replicanti. Avranno risposte e soluzioni per cose che non sono più domande né problemi, quindi non serviranno più e verranno cestinati o messi fuori come spam.
Il difficile allora sarà per noi, che come in ogni realtà virtuale che si rispetti, avendo sconfitto il mostro di fine quadro, passeremo al quadro, al livello successivo: l' Europa. Non e' un una gara dei 100 metri, e' una Maratona, oppure una partita a scacchi, e se e' vero che il Re e la Regina giocano con loro, che hanno gli Alfieri, i Cavalli e le Torri a difendere, non e' una partita fra pezzi bianchi e pezzi neri (o destra e sinistra, o qualunque cosa serva a dividerci), perché vince sempre chi mantiene in vita il proprio Re. Questa e' una partita che si gioca fra Re e cortigiani da una parte e pedoni dall' altra. Solo che a questo gioco i pedoni sono 300 milioni, contro trentacinquemila. Sul piatto c' e' il futuro di tutte le persone europee.
E' possibile che io mi sbagli, ma pensaci solo un attimo e, mi permetto, lascia perdere la Meloni che poi al dunque ha sempre votato come votano loro. Ma lascia perdere lei come Gasparri, LaRussa, D' Alema, Rizzo, Occhetto, Fini e Cicciolina (i Cavalli), lascia perdere i Giornali e le TV ( le Torri), lascia perdere i dirigenti delle forze di Polizia e tutti quei signori che decidono le manovre economiche e delle industrie farmaceutiche (gli Alfieri). Si intende, lo dico e spero tu ne comprenda il senso, oltretutto sei una persona più grande di me alla quale devo rispetto, perché lo meriti e perché così mi ha insegnato mio Padre.
Ma pensiamoci bene perché giocata questa partita, di altre possibilità non ne abbiamo. Dopo questo l' ultima stazione credo siano i fucili e la rivoluzione. Io non ho figli ma ho nipoti, tu hai molto più di me da mettere sul piatto: abbiamo la responsabilità dei sogni o degli incubi che gli andiamo a lasciare.


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05/09/16

Il popolo mangiato dalla polvere.




           Dove va a morire la Persia? Affonda nelle isole del Mare Egeo oppure si annida fra le maglie sottili di un arazzo rifinito con dei fili d' oro appeso a un muro? Ne delimita il confine il Caucaso o raccolto nello scrigno di quel Medio Oriente raffinato più del suo petrolio? E lunghe carovane continuano a sciamare come se in un altro tempo si potessero cercare nuove Vie. Solcata quella vastità di rudimenti e delizioso fascino, viandante si abbandona al fresco di una notte mite per cullare desideri silenziosi dietro gli angoli più angusti di città ammassate, polverose e di randagi che sia arrangiano inseguendo qualche cosa da mangiare.
Nuda noia al momento del thè, quando quell' alito di vento arriva per incontrare le tonalità soffuse di quel giallo-arancio dei palazzi bassi, con tutti quei finimenti che come sentieri sono in grado di far perdere ad un occhio poco attento, e come medicina mischiano e raschiano i pensieri come fosse un elisir. Nel rumore di un brindisi che sbatte dei bicchieri gli uni contro gli altri, l' ambra ed il fumo di quella bevanda si mescolano ad un tramonto senza eguali, miscelandosi fino a riempire tutti gli occhi, andando persi un sorso dopo l' altro, ed affogando nella sazia sagoma che fa il confine.
Gli archi e una locanda assicurano un ristoro tranquillo, mentre la notte giunge piano coprendo quel che del cielo era rosa e arancio e adesso sfuma via. Inerzie del tempo che passa e meccaniche disciplinate azioni che stancamente si ripetono in questa ossessiva routine. Un nitrito e poi un altro, giungono rumori dal caravan serraglio, ma il calore del tappeto scalda i piedi nudi e i rudimenti di una vita semplice di cose appena sufficienti. A qualcuno basta. A tutti sembra bastare. Mentre quel fumo che era thè adesso quasi onomatopeico si trasforma in rumore. Tutti quei dadi che corrono e quelle pedine appoggiate sul piano di legno a triangoli. Una ossessione quel gioco, e mentre i più sono alle prese con il qalyan. Agli angoli qualcuno mastica le foglie di qat di contrabbando cercando di non farsi notare, ma mansueti ed assonnati assistono alla scena essendo quasi pertinenti a tutto il resto, oramai alla stregua di una nenia.
Il giorno corre veloce seguendo la curva del Sole. Le ore dove e' più alto ci si ripara per non essiccare o bruciare le idee. Racconti in lingua antica che appena comprendo parlano di gente istupidita dal calore, gente che e' vissuta andando via la notte fra code di farneticazioni, di racconti ed urla per non ritrovarsi la mattina su quei materassi di iuta o quei tappeti che li avrebbero potuti accogliere, e che ne avrebbero potuto accogliere tutti i pensieri. Candide canaglie il popolo mangiato dalla polvere, andati via dall' esistenza senza degna sepoltura, eppure ancora lì a rappresentare tutto ciò che di incrollabile in un uomo cresce dondolandosi fra il tempo e il proprio arbitrio. Fugaci lampi di un cielo stellato che segnano misura al sogno accarezzandosi nel viola cupo di una celere burrasca che si affaccia all' orizzonte. Così come i colori dei tappeti e quei nitriti scosse dentro il caravan serraglio. Nodose mani aiutano a cercare dentro i sogni quell' esatto istante che riesce ad irrorare le meningi e che come una cometa cade dritta dal soffitto sulle nostre fantasie di libertà.



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Convergere fino a sovrapporsi.





                  Ero rimasto ad osservarla immobile, mentre scalza e completamente nuda se ne stava andando verso il bagno. Sentivo l' incedere dei suoi passi, finalmente calmi, e immaginavo il punto esatto in cui si andavano a poggiare i piedi. Vedevo la loro forma dilatarsi per aderire al pavimento e poi, sinuosamente, ricurvarsi per il successivo passo. La forma del suo corpo era perfetta. Non molto seno, proprio come piace a me, ma con un culo bello da impazzire, e poi quella straordinaria curvatura dei suoi fianchi. Mi ricordo che avevo passato e ripassato il dorso della mano sulla pelle all' altezza del bacino, e questo, non so come, l' aveva incuriosita e divertita, fino a quando poi la notte non si era fatta seria e ci eravamo abbandonati a stare insieme. Ricordo di essermi domandato molte volte cosa ci avesse trovato di tanto interessante in me, da chiedermi di accompagnarla a casa e poi farmi salire. Ero un abile servo della lingua, per carità, che talune volte innocentemente, altre un pò meno, alimentava la conversazione guidandola in anfratti dove qualcuno si disinteressava o dove gli argomenti potevano riempirsi di uno strano angolo che incuriosiva, ma tutto qua, con buona pace dei viveur e degli appassionati della seduzione.
Le armi per la verità non le mettevo in campo quasi mai, perché le velleità venivano sepolte non dall' assenza di desiderio, ma più che altro, dalla delusione che provavo spesso per le ovvietà. Non ero un amante del perfetto, anche perché in primis io ero un racconto sui difetti e sui miei limiti, e pativo assolutamente un mio concetto di bellezza canonica, ma quando l' imbarazzo incontrava qualche sua sofisticatezza fuori luogo, o che crollava sotto i colpi della sua voglia di teatralizzare la scena, veniva meno tutto. Mi accorgevo di fuggire via da certi atteggiamenti, che li pativo quasi vergognandomi, e sebbene mi trovassi ancora lì di fronte a lei, fisicamente, la mente ed il pisello già avevano lasciato il tavolo per andarsene a trovar riparo in qualche anfratto dove l' ovvio e la banalità potessero restare fuori.
Altro discorso accadeva quando lei, invece, riusciva a non sbagliare nulla. La giusta dose di buona educazione e di sensualità si mescolavano con quel canone di forma che apprezzavo e con la giusta dose di uno sguardo che poteva frantumarmi e diventare complice.
Non credo fosse per la posta in gioco, magari più per la pressione del momento, avevo qualcosa che col mio modo di essere si fondeva, e come un esattore delle tasse, puntuale, giungeva un mio passaggio a vuoto dove l' idiota che e' in ogni uomo che vuole fare il gallo metteva a repentaglio dei sorrisi e delle placide idee di mescolare insieme le proprie vite per un lasso di tempo anche breve.
Quando capitava le gambe erano sempre un tremolio fragoroso, ed avevo spesso la sensazione che i jeans potessero scivolarmi da dosso, ma poi mi riprendevo e non volevo fare altro che toccarla e sentire quale odore avesse.
Così era stato quella sera, e pensare che una mia mossa troppo azzardata, oppure troppo celere, mi aveva anche fatto guadagnare un piccolo buffetto sulla faccia. Come al solito la mia assoluta incapacità di agire per tempo aveva rischiato di rovinare tutto, ma avrei scoperto che proprio quel gesto di educata insolenza fu per lei l' ago di una bilancia emotiva che l' aveva eccitata. Baciami ancora. Stringimi. Ed eravamo stati lì entrambi, dentro casa sua, con quei due calici di vino rosso mai finiti appoggiati in terra, e con il suo sguardo che mi fissava quando dal bagno il rumore dei suoi piedi ne annunciavano il ritorno.
Forse solo sesso, forse per una notte e per mai più, ma l' indelebile traccia del suo odore nel mio naso e sulla bocca, e l' istante in cui la mano stringe l' anca e che l' ha fa girare.


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04/09/16

La tenera amante.




            E' dentro un flash che acceca gli occhi. Esattamente lì, dentro quel breve istante che ritrovo il desiderio di far correre la penna sulla carta. Ne e' testimone inchiostro che deposita e si asciuga disegnando curve che come petali diffondono odorose liquide virtù. Condizionato in ogni istante da quel libro che si va affrontando come fosse una parete che mi ruba il tempo, ritaglio il tempo stesso in un momento dilatandone le pagine per asciugarne ancora questa idea che lo attraversa.
Crepitii di un' anima inquieta che riavvolge nastri per guardare in lontananza. Dardi scoccati da balestre che alle tremule corde incrostano, sigillandole, piccole note di diapason che altrimenti si disperderebbero diffuse su tutte quelle pagine che cancellate e ricorrette vanno spesso via. Timori e disgregate fantasie, dentro la stessa macchia che si propaga e che si blinda in quel tessuto che come l' epidermide li accoglie.
Frenesie di un tempo che si scuote per lasciarsi andare, e in una replica di archi che ai lati come fossero di un chiostro, delimitano spazi angusti ed operose, meccaniche dita per produrre suoni che divengono infiniti. Sorprese per gli astanti e la fontana al centro, dentro quei corridoi che simmetrici si spezzano in quell' angolo dell' ovvio che non possiede curve, lievita le densità cullate sopra al freddo cotto sotto i piedi che accompagna.
Amanuensi prestati a un momento di svago, dove il taglio del Sole illumina parete e che la scioglie in quel medesimo inchiostro che adesso cade giù. In quel rigagnolo di nera pece scorrono le intensità di una vita vissuta attraverso, dove sono intese bene, chiare, le ombre di un soffitto calpestato, e dove invece si trascurano le scene solite di passeggiate verso siepi e nei giardini di una comoda decente noia che ci basta.
Sazio mai di oltrepassare il segno, come se pagina si distendesse ancora per non finire mai. Nelle tende di una cruda valle resto ad ascoltare il suono di un messaggio lungo che ci scuote ancora. Vettore osserva e regola che detta avvolge. Dentro la scena arriva il gelo e in un aiuto ancora suoni nuovi e nuove brezze. Scossa la vita e lacerato il fianco, resta l' incanto e quel desiderio di ripensarsi ancora seduto ad uno spesso tavolo di legno antico con la penna in mano. Guardare il foglio che ho di fronte e' spesso stato una ovvietà, ma in questo istante, dove vedo il soffitto e trovo il cielo, raccolgo le macerie di tutto quello che mi cade dentro, e celebrando un ordine che voglio ritrovare, adesso stringo la mia penna fra le mani perché e' proprio lì, dentro quel foglio e in poi, che il naturale corso delle cose si va riprendendo.
Ho nulla, ripeto, fra le mani, se non un pò di polvere, di sangue e quella penna. Guardando i miei vestiti laceri provo il dolore di chi vivrà non incontrando più nessuno, ma in quell' inchiostro ho ancora il mio ricordo e quel rumore del vento che non cambia, come non cambia il freddo delle valli dove ho scelto di invecchiare.
Una pagina, una vita, una ferita. Tessuto di una tela che preziosa si riaffaccia alla musica che l' accompagna.
Tenera amante, non crollare.


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17/08/16

Pan di Zucchero.





          Come tante bolle di vegetazione che si incontrano su più lagune prima dell' immenso oceano. Questa e' l' idea che mi da Rio de Janeiro. Come se tante pustole di flora rigogliosa si prendessero la vita riuscendo a suggerla dalla città e dalle favelas che gli sono sorte intorno. In tutto ciò una temporanea selva di muscoli e determinati atleti, di acido lattico, di delusioni e pianti, in mezzo a qualche accenno di soddisfazione e a qualche nota udita fra le lacrime e la commozione.
Uomini e donne a concentrarsi sul vento e sulle solite fatiche che li hanno portati fra le bolle della megalopoli carioca. Il tutto sapientemente condito dal destino, che con un tempo buono, altre volte ventoso, da record o che non gli permette alcuna prestazione, mescola le volontà fino a farle divenire il fiume che poi giunge al mare.
La pressione si avverte, la tensione, o forse sarebbe meglio dire le tensioni. Un tomo di differenti corde pizzicate, come simbolici fili di una seta pregiatissima che son partiti dalle rispettive case di ciascun atleta per giungere sull' asse di un gomitolo che ora le avvolge colorate di fronte al Cristo Redentore. Questo gomitolo fasciato e immobile, avvolto dentro un' iride di un uomo che non guarda nello stesso modo, si spegne lentamente dentro al Pan di Zucchero, ed anche dentro a chi lo sa cercare. Fra le note curve di una costa soffice distingue e poi si crogiola, forte delle velleità di tutta la sua gente e dell' accento portoghese che lo rende dolce al suono e curvo dentro.
Laghi e pagaie, trampolini e piste, ma poi quella dannata povertà che inaridisce le coscienze e che, seppur nascosta, grida fra le vele di mille e più favelas mendicando ascolto oppure possibilità, foss' anche una sola. E' quella povertà che nutre il crimine, quella che si culla dentro la disperazione di chi non sa come portare il giorno avanti anche se si accontenta. E' povertà che per alcuni fa vergogna, e che per altri non si vuole far conoscere, tant' e' che tutta quella gente che vigila su questa manifestazione non avrebbe ragion d' essere se questa non ci fosse, se non esistesse.
Vividi sogni e mute consapevolezze, dentro le chiocciole e per le matrone che difendono la zona. Anch' esse sono pustole dentro la costa che gonfie arrivano a lagune mentre dei forti venti di risacca macerano arbusti che le onde di marea si sono prese per poi distruggere e renderle in frantumi. Nella selva alcuni scrigni inghiottiti e delle lingue di catrame, e in tutto questo oscuro vortice che li ferisce e saggia, il desiderio di colore per tutti quelli che non sono in grado di poter essere seta. In conseguenza l' esplosione di pastello che si alternano a quelle schiene di verde bruno ed incontaminato delle bolle che li abbracciano. Sono lì, nella pila degli inesistenti, a reclamare voglie e desideri, aspettative e frantumate oscene speranze. Il tutto crivellato dai colpi di fucili e di pistole. Da urla, pianti e persone scomparse. Gente la cui vita ha un prezzo troppo basso per avere il ritmo di un bel podio o il tintinnio di una medaglia conquistata.
Esplodano i rumori e i suoni di questa kermesse, si diffondano le menti attente e le curve di felicità che avvolgono gli atleti e tutte quelle anime che seguono gli Sport. Che quel fiume si propaghi e che divenga a propria volta un' onda che sommerge e che solleva. In quelle bolle d' aria che riaffiorano, si abbandoni la melma del trascorso e vengano rese mute le canne di quei criminali intenti.
Una volta svanito il sogno resti almeno una piccola scia per tutti quei bambini che dovranno crescere di nuovo accontentandosi. E' per loro quella schiuma che respira, così quelle cascate di zucchero filato e di croccante fra le selve silenziose e buie e fra le case rimediate di colori e di vernici che ricordano il gomitolo del Pan di Zucchero.



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Rio de Janeiro 2016.





        
Quindi, ricapitolando, le medaglie italiane fino ad ora le portano pelati, vecchi, culone, ciccioni, secchi allampanati, nasoni, nane, pennelloni, qualche gobbo, la donna cannone e pure mangiafuoco.
Le portano quelle Federazioni delle quali ci si ricorda solo quando arrivano gli eventi come le Olimpiadi, che danno visibilità, tant' e' che puntuale arriva l' intervista del Signor Malagò dopo il successo di Elia Viviani nel Ciclismo su Pista, poco fa.

Si parla spesso di riorganizzazione dello Stato. Beh, secondo me questa riorganizzazione deve necessariamente passare anche attraverso un totale cambiamento dei vertici del CONI, ed una revisione della classe dirigente di tutte le Federazioni Sportive, troppo spesso a carica politica e non per le effettive capacità. 
Dimostrando si, inadeguatezza, ma soprattutto per il menefreghismo costante dei primi durante il quadriennio che approccia alle Olimpiadi, e per la totale prostrazione dei secondi verso il volere dei primi, più che per l' effettivo risultato sportivo degli atleti e per la crescita umana degli stessi .

Fatto questo, lo stesso dovrà farsi, credo sia opportuno se non necessario, per riorganizzare l' Informazione che parla dello Sport, che non fa altro che parlare degli atleti che fanno più notizia (e fanno vendere), e degli Sport più "spinti". Tutti quegli atleti e quegli Sport che a Rio hanno deluso e che hanno portato poco o nulla. Ci raccontano mostri sacri con riverenza salvo poi permettersi delle vergognose cadute di stile come nel caso delle nostre grandissime arciere.

Detto ciò, faccio un grande augurio a tutti i nostri atleti, gaggi e non, noti e non, telegenici e non, che devono ancora gareggiare. Con le sanguisughe ai vertici del CONI e delle vostre Federazioni che vi tolgono tutto per poter praticare le vostre discipline, siete voi i veri Eroi, dal primo all' ultimo, quindi godetevi questa kermesse, e contribuite a dare lustro ai nostri Colori.
Forza Ragazzi, evviva l' Italia.

16/08/16

Pagine raccolte.




        Anche una goccia. Anche una sola goccia che cade sulla superficie di una piscina quieta, affondando e mescolandosi col suo stesso elemento crea dei cerchi concentrici che si propagano fino ad assorbirla. Per quanto piccola ed inutile, quella goccia, e la sua poca forza, va comunque ad incidere creando quel cortocircuito che separa quello che la accoglie da lei che entra, nel momento esatto e nei successivi in cui poi tutto si ristabilizza.
Crateri e vapore, fumi e lava incandescente vomitata dalle membra più intime di una terra costantemente in movimento. Onde di marea, nubi e precipitazioni. Poi vento ed uragani, tifoni, tempeste di polvere e tempeste magnetiche. Croccante rivalsa fra la Terra ed il Cielo sono i fulmini che spesso offendono foreste ed infiammano le punte degli alberi più alti. Il tutto in un groviglio di movimento e di scosse che come lampi e come le saette restano a colpire indiscriminatamente tutto ciò che trovano. Vacilla la Natura nella sua Flora e la sua Fauna. Altro mondo la vegetazione e quella goccia unica che penetrava il suo elemento adesso annaffia piangendo fra le fitte jungle dei polmoni della stessa Terra. Le nutre fino a farle rigogliose e ancor più verdi, mentre l' anello eterno della Vita si riavvolge come un nastro generando quella scala che da vittime porta ai carnefici, a loro volta vittime per altre specie che li cacceranno per nutrirsi e generare.
L' incedere lento delle giornate e della Vita, che come macchina da scrivere rammenda e al tempo stesso fa tesoro. Come se il filo che tesse fosse esperienza, come se le repentine frustate nel tessuto fossero dei terremoti da sconquasso. E continua ad andare, inesorabile e cadenzato, come le giornate che si inseguono, come il germoglio che si approssima al crescere per poi fiorire dopo essersi seccato ed esser morto. Anelli, gli stessi anelli che propagano quando la goccia incontra il suo elemento dentro la piscina quieta. Tutto si avvolge per poi srotolarsi e ritornare a raccogliere. Intima risposta di una cosa che cela dentro all' idea di immobilismo la vera anima del movimento scosso e che si nutre del suo stesso rumore.
Sono vari i piani di questa coscienza che sembra sfuggirci. Sono varie le cadenze e le sue direzioni. Spesso assurde, altre incomprensibili, ma nell' intero schema assumono comunque loro forma per riflettere e riflettersi nell' atto di trovare inconscio scopo. Anime di una vacante ninfea che, libera, si presta alla corrente di acque placide. Elementi. Incontro e feroce lotta. Cristalli di salgemma eroso brillano nelle lucenti grotte delle cave. Centinaia di metri sottoterra mentre la Terra muore, altra Terra immediatamente si ricicla e si rinnova. Un viaggio di un attimo, di un giorno o di una intera vita. Come se Cielo e Terra fossero in realtà custodia e inchiostro e come se quello che accade fosse lettera, parola o pagina di un libro che non ha la fine.


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13/08/16

Temporary Road.



Ieri ho potuto vedere la replica dell' elettricità più che di un documento. Ho attinto alla vita del Maestro e pur non conoscendone il volume ho ritrovato analisi e tranquillità già note su quella pellicola che ne racconta in parte il raziocinio e la rassegnazione all' elevato. Corde pizzicate negli stessi punti di strumenti molto diversi, ed un epilogo dove la Natura ha il suo fondamentale ruolo di testimonianza di un qualcosa dal quale in modo labile ed inconsapevole ci lasciamo troppo poco spesso attraversare. Purtroppo.



       Disegnava di fronte ai miei occhi una lunga pila di dischi in vinile sistemati uno di fianco all' altro. Chi li aveva sistemati in quel modo, non ha importanza, fosse anche un feroce collezionista oppure soltanto la mia immaginazione, non aveva badato molto a che le tracce, graffiando i piatti fra di loro, si sarebbero potute rovinare. Come elementi che si potevano addensare, che si graffiavano gli uni con gli altri, parti di quelle registrazioni si potevano rovinare fino ad arrivare a perdersi. Era solo allora che come farina sul terreno se ne poteva raccogliere la mescola, reale empirica sostanza di quella che era stata l' esperienza che le aveva tracciate. Ne respiravo le singole esistenze, volgendo il pensiero, poi, ad una tela piena di nero pastello dove tutto si puliva e quello strano inchiostro che avevo raccolto da quei graffi si diffondeva autonomo per poi raccogliersi e trovare forma nuova tutta sua. Le vele del vento asciugavano nell' esatto attimo in cui il rumore di ferraglia sembrava blindarne il termine, ed e' proprio dentro quel termine che ibride, le idee e i concetti che sentivo penetrate da una forza simile all' acqua scossa delle rapide di un fiume, ricompattavano per poi pressarsi e divenir germoglio. Averne cura sembrava facile, ma le radici rinverdivano per poi seccarsi in un momento solo, salvo poi, nell' attimo seguente, tornare a germogliare ancora. Il tempo sembrava non ci fosse. Come se non gli interessasse più comprimere per poi allungare spazi e riflessioni. Non facevo altro che ripetere quel movimento mentale: scostavo in mille direzioni i miei secondi, separandoli dal concetto e dall' idea di tempo, li portavo facilmente su quei piatti di vinile dilatandoli fino al ricordo di qualcosa che sapevo di aver visto ma che non conoscevo. Come degli sciami di vespe che attaccano la sabbia mentre una tormenta infuria, in un magmatico marasma che era divenuto oblio, d' un tratto disciplina e raziocinio mi azzeravano le scosse dissipando tutto ciò che era confuso ed isolandone l' immagine che come una istantanea rimaneva documento dentro al vortice impetuoso che lentamente riprendeva a muovere. In una armonica di fiati contemplavo quei disegni come se i ricordi fossero fuggiti via. Angosciato per la nuova consapevole realtà ricominciavo a mietere aspettando che qualcosa si sgranasse e poi ripetere quello che avevo fatto senza conoscerne le conseguenze. Quasi estatico affondavo il muro per accaparrarmi un angolo di muta libera esistenza, ma il liquido emergeva fino a tracimare dalle idee che avevo e che vedevo andare via senza l' inchiostro che le aveva trattenute sulla tela qualche cosa prima. Solo, trepidante e scosso. Abbozzavo una resistenza che mi chiudeva succube del preconcetto. Il vero insegnamento di quell' angolo che non spingevo più era l' abbandono. Nulla oltre l' essenza, nulla che la precede o che la segue, e nulla che riesce a trapassarla perché talmente fitta e più pesante di qualsiasi dogma conosciuto. Esperienze. Si, esperienze. L' antico pane per chi riflette e chi domanda. Ma solo polvere di quell' essenza, niente di più di polvere, magari raccolta in terra come farina, o scivolata via in un fondo che non si conosce. Alito di mille vite e di una sola, consenso e rassegnazione dentro lo specchio di un pensiero riflesso dall' anima che vede solo forma e invece contenuto attende messo in fila su quei dischi e sopra un altro ancora.




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02/08/16

Di Grazia, Grazie a Dio.




           Ci si abbandona all' informazione come ad un virus che si diffonde e verso il quale non si trova antidoto che possa salvare. Nel novero dei dati che ci vengono proposti, elaboriamo quello che e' possibile elaborare perdendo di vista spesso il resto delle cose, tutto quello che ci interessa meno, come se una iride dentro al cervello focalizzasse il centro perdendo dell' immagine il contorno. Come un contorno che si vede male l' Opinione permea ed invade, impedendo al nostro sguardo di centrare bene la notizia così per come e'.
Violacee intenzioni e laide alternanze fra le varie servitù ed i satolli ventri. Comprati scribacchini fra le selve di operai proni e fra l' inchiostro di una stampa che non ci racconta ma ci dopa. Li vedo tutti insieme in grandi uffici a confrontarsi su quell' ordine che han ricevuto, e successivamente adoperarsi come automi alla mercé di chi ha un telecomando e che su quei pulsanti preme. Faccio io! Faccio io! Io sono già pronto. E tutte queste melmose esistenze si rincorrono per ben figurare. Tante formiche in movimento sulla merda, dove un moscone passa e ci si appoggia per poi volare via e per ritornare ancora. E loro a chieder grazie dentro al fetore vergognoso di uno sciame per mendicare un pò di caldo impasto da portare nella buca.
Salva l' apparenza col vestito della sera e con la giacca, monili di vario tipo ed orologi, e anche bracciali. Tutto per andare a spolverare quello schifo che ferisce la cute ed il confine di ciò che si e' disposti a sacrificare per reclamare un qualche spazio, per mendicarlo e per essere disposti soprattutto a raccontarlo male.
Dove sono i padroni sono i servi, e dove Cronaca abbandona e lascia, l' Opinione monta. Via da tutto ciò, restando in silenzio e rifiutandosi di scrivere qualcosa oltre il concreto fatto che poi sia focalizzante e libero da tutte le sue congetture artificiose. Via dai mendaci messaggi che al passaggio del padrone vengono ascoltati e replicati minuziosamente. Quel pò di pane rappreso, se bagnato e' anche mangiabile. Magari una "comparsata", una breve apparizione in una scatola rettangolare con le notizie scelte bene per non far comprendere, o confondere, che scorrono alla base.
Regala una notorietà che e' tutto fuorché regale. Un premio e questo nuovo appuntamento, denso di congratulazioni con colleghi che ti danno pacche sulle spalle come fossero mannaie e lame di siche. Bravo! O brava! Ce l' hai fatta! E via a sciogliersi in bile il cumulo di invidie per questo sentimento rancoroso che ti ripaga dello sforzo fatto con la lingua poggiata sulle terga sporche del padrone a fare avanti e indietro, e che a nulla e' ancora servito per coloro che in questo istante si van complimentando ma che solo forse arriveranno dopo.
Della buona erba ricrescerà usando quella merda come concime. Fertile terreno sul quale costruire altra menzogna, fino a giungere all' elevata massa di letame che cosparge e colma il terreno dei suoi sali minerali e di quell' humus che per molto tempo hai solo raccontato di vedere. Ne diviene parte integrante, e sollecitandone il movimento come fosse un ramoscello che la penetra, rilascia quel terribile puzzo che ci ricorda i passi fatti da formiche scarsamente igieniche e che se ne fregano di cosa debban calpestare pur di giungere alla meta.
Ricordo ingerenze per il dovere di Cronaca, e ricordo l' Opinione al posto della Cronaca. Un surrogato che con facilità sostiene raccontando parti e non il tutto, mostrando un taglio e non l' intera forma, Fiaccando l' anima di chi non sa ascoltare e che non vuole o non ha tempo. Il tutto condito da quelle locuste e quelle mosche ancora, che dalla merda si innalzano operandosi per essere giudizio e lecita domanda. Un inviato fra le trame di una ragnatela, impotente con il suo padrone al punto tale da venire meno quando il suo cliente chiede aiuto o, come preda, in attesa di essere avvinghiato fra le fauci di una falsità che non si deve denunciare.


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31/07/16

Anna.




          Quella traccia sottile che delimitava i tuoi occhi quando stavi concedendo un tuo sorriso adesso si mescola ai pensieri ed al ricordo, incastonato dentro quella folta chioma nera e quelle curve dolci che ammantavano il tuo viso. Dei sorrisi che mi facevi fare, insieme agli altri due, adesso non resta che una foto antica scattata chissà da chi, e comunque distante da ciò che gli anni ti avevano consegnato, scagliandoti lontano dalla tua professione e dalle pareti di casa mia, dentro le quali entravi sempre con piacere e buona educazione.
La bellezza risiede talvolta fra le righe stropicciate di un vestito liso, oppure la si può trovare nei più reconditi anfratti di un pensiero buffo che però, dentro di se, cela una malinconia frenetica che può arrivare anche a distruggere.
Ho amato il tuo sarcasmo ed ho apprezzato la tua femminilità elegante. Forse non e' un caso che tu te ne vai proprio in questi anni, dove stiamo perdendo tutto senza accorgersene, e dove il mostrarsi, dentro una ricerca spasmodica di costruzione ad hoc per ogni differente evento, ci rende quanto più mai falsi ed assolutamente immeritevoli di quell' attenzione che talvolta fragilmente richiediamo. Come se fossimo tanti gettoni usati per continuare a conversare, poi non si sa nemmeno con chi.
Via da questa dimensione, come una bambola chiusa dentro un carillon, e dove quella scatola e' la tua malattia che ti ha distrutto lacerandoti pian piano. Allontanato fra le cose che non si usano più, per poi un giorno ritrovarlo, aprirlo e sentire che quella sua musica ancora suona come nell' attimo in cui lo abbiamo chiuso e messo via.
E delle sottili linee di una vita che se ne stava andando non hai più dato notizia. Talvolta, ma solo raramente, raccontandoci del mare che passavi, ma sempre in quel sorriso di donna immensamente affascinante, e che non perde neanche quando e' la sua vita che la sta battendo. Rimasta lì a combattere in silenzio, come il soldato giapponese a cui non era stato detto della fine della guerra, ostinatamente garbata, privata, con quell' idea di essere distante da quel tritacarne che e' la ricca e dannata notorietà, e rilasciandoti in quella dimensione umana che ti era appartenuta sempre e che non avevi mai lasciato andare via da te.
Corpo lascia e il tempo lo cattura, ma invece l' anima lievita e va via, dentro il suo viaggio e nella esatta dimensione che vuole raggiungere per ritrovarsi e finalmente essere quieta.
Sei lì Anna, e quelle immagini trascorrono dicendoti di tutto ciò che e' stato. Adesso tu ritorni a te, e a quell' idea che ti volle nata a calpestare questa Terra nel tuo modo. Parole e inchiostro, di fogli laceri e ingialliti, come le pergamene che nei vasi si ritrovano colme di polvere, e come tutti quei disegni fatti da bambina e messi via che fra le carte di un trasferimento si ritrovano e alle quali non sappiamo rinunciare.
Vai via così, come sappiamo fare noi, dentro un orgoglio silenzioso che ai più racconta poco o nulla, ma che per chi lo sa ascoltare fa un baccano assordante e disintegra un ricordo trasformandolo in una lacrima che scende via. E dentro quella lacrima tutto il dolore e le tensioni si raccolgono per imbrigliarle e farle andare, come una cima che si fissa e che nessuno scioglie che nel vento si tende e flettendo ci canzona.
Arrivederci dolce Anna, veglia carinamente come sai, e proteggi la piana dei giusti come se quelle pareti fossero divelte e ci potessi ancora entrare come hai fatto un tempo.


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25/07/16

La disciplina e il ricordo.



           

                  La magnifica quiete di queste valli. Il silenzio.
Dove le riflessioni, il tempo che occorre e' lì da prendere, e basta per tutto.
Dove una visita allieta, e dove un simposio all' ombra di un fuoco può legare per sempre.
Dove lo stesso fuoco ci fa ricordare come se tutto fosse rimasto lì esattamente com' era, come se non ce ne fossimo mai andati via.
Il nostro specchio e nei volti di chi resta a vigilare. Guardiani della luce e dell' alba.
Affondano le radici e orgogliose si nutrono di quella pioggia e di quelle sorgenti che alimentano questi monti.
Che questo convivio non sia soltanto un convivio, ma anche e soprattutto uno scambio.
Come se la tavola si elevasse, portando con se un po' di brace e quei piatti da cuocere ancora.
Serve a rinsaldare e a gridare una volta in più, se ce ne fosse bisogno, che si può, si deve reclamarla.
Reclama e pretende l' appartenenza a questi monti schivi, dove anche il silenzio talvolta ha la suo eco e la sua voce.
Dove alcuni cavalli al pascolo possono insegnare i ricordi, il naturale abbandono solo a ciò che e' effettivamente necessario.
Ove e' lo stesso concetto di tempo ad attraversarci, e resta lì, come se ormai noi non riuscissimo neanche più a riconoscerlo.
Cammina veloce chi adesso e' lontano. Altre abitudini, altri impegni, e si sa, l' essere umano plasma se stesso in base alle sue esigenze.
E' per lo stesso motivo che quel cordone, ritenuto talvolta lacero, alla fine riesce sempre a ricondurre dove la strada fu costruita dal solco.
Come una gestante che da alla luce un bambino, oppure come una nonna od un nonno che scalda il suo cuore osservando i nipoti crescere.
Tutto attraversa ed il passaggio e' lieve e ci rallenta riportandoci all' inerzia di quei tempi andati via.
In questa terra l' impeto e' proprio solo del freddo, di un freddo vero e del vento che sferza, e che accompagna quel freddo.
E' buona abitudine resistere a tutto senza prestare il fianco o farsi cogliere impreparati.
Come se fossimo ciocchi di legno accatastati, provvigione per l' Inverno, pronti ad ardere e scaldare mentre si accompagnano altre provvigioni per sedere al tavolo in quel solito insieme ritrovato e ricordare.
Consumando pasti ed accumulando riposo, oltre allo stesso tempo. Recuperando per far si che poi si torni a riafferrare quell' essenza e queste stesse valli, che poi le stesse non sono mai.
Esse mutano in maniera impercettibile, ed in un buon bicchiere di vino, ed in qualche grasso sorriso, se ne vanno via dentro l' inconscio che in quegli stessi bicchieri macchiati di rosso si riflettono e ci percorrono come noi crediamo di aver fatto prima con le stesse.
Anime trascorse e violacea traccia di quell' uva che ci offusca un po' le menti.
Ci costruisce semplici sorrisi. e una gran voglia di lasciarsi andare e di tornare ad essere lievi.
Senza le curiose abitudini e senza quelle solite sarcastiche illusioni che ci costruiamo per poi crollare ove non c'e' lavoro e delle buone fondamenta a sostenerle.
I monti insegnano la disciplina della fatica e del rispetto. In essi tornare e' gioire del ricordo da la nuova spinta per quello che sarà a venire.
Cercando la vita in lunghe passeggiate, ascoltando quello che la corteccia degli alberi ha da dire, e che il vento al passaggio fra le fronde le stesse fa suonare.
Cumuli di foglie che son funghi. Lepri che attraversano la strada. Grugniti di cinghiali oppure ancora nuova mescita apprezzata.
Ed in questo clima di risvegli compie solenne il passo al suo tempo e ne rallenta il movimento.
Leva ancora un' altra volta il calice a toccare il cielo per celebrare la ritrovata unità che fa percorrere la stessa strada.
Durante l' anno non si perde, si accantona e mette via, per poterla cogliere di nuovo quando il giusto tempo ed il riposo arriva.  


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24/07/16

Il Silenzio che si Racconta.



       Questo scritto va alla frazione di Piedimordenti, Comune di Borbona, Rieti.

Ma va soprattutto ad alcune persone che già da molto tempo ho modo di apprezzare e che si prodigano spesso per la mia felicità e per quella di un nutrito gruppo di miei amici.

Amo la vita semplice, e allo stesso modo rifiuto sovrastrutture, finzione e tutto ciò che della vita e del viver comune non e' nucleo.

Massima espressione di Libertà, come questo dipinto di pastelli dai confini di un immaginario ampissimo e denso, dove un incontro dell' essenziale, del basico, finisce per mescolare gli elementi tutti insieme. 




IL SILENZIO CHE SI RACCONTA

E' come un orto di cartapesta
Questi terreni, quì a Piedimordenti
Dentro un ricordo che come pastelli
Disegna curve discese dai monti

Se poi e' l' inchiostro che tinge la mano
A ricordarci la traccia che scorre
Placido passa da sempre il Velino
Modella scene, anzi le vuole imporre

Intima passa e n' e' testimone
Cambia, accarezza, poi scivola a valle
Gelida e' l' acqua ed e' il bene comune
Corre, si stringe, va via come un folle

Ora e' lo sguardo che fissa un pensiero
Ritto si posa su un volto segnato
Racconta un viso che non sembra vero
Parla di un tempo che se n' e' andato

Raggruma gocce che poi fa matassa
Come se un filo le tenesse insieme
Passa la vita che pare melassa
Sciolta in un tempo che non le conviene

Osserva il tempo e lo guarda negli occhi
Dentro lo aspettano rughe e un signore
Ecco che adesso memoria riaffiora
Nei pochi istanti racchiudono ore

Brilla scintilla di quel caldo fuoco
Legna che arde riscalda la fiamma
Piedimordenti ha dipinto per gioco
Ma adesso a bruciare e' il mio cuore che affanna

Resta a diffondersi un fumo di brace
Varca il confine come fosse un cancello
Passa un cinghiale poi plana un rapace
Di un bel disegno ora il cielo e' mantello



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04/07/16

Le tessere cadute.




          Come un elastico rimbalza sulla vita e si rapprende per poi tornare a tendersi e ad irrigidirsi sulle cose, quasi impotente aspetto che la nuova estensione mi dilati su questi giorni caldi che sto attraversando liquido e che mi hanno fiaccato fino a rendermi quest' apatia verso le mie giornate che ora soffro ma che non posso in alcun modo contrastare. Disintegra il mio stato d' animo, rendendolo in piccoli pezzi chiusi nelle stesse situazioni, che di me vivono parti separate di un insieme, e che non sono mai allenato a riattaccare.
Un viaggio spezzato fra le tessere di un antico mosaico, messe in fila come nel gioco del domino e pronte ad essere colpite per cadere a terra. Le guardo camminare e poi cadere l' una dopo l' altra, come tante giornate andate via che non ritorneranno, mentre le curve e tutte quelle tessere che scivolano via m fan pensare a quante cose ho valutato giusto il tempo di un momento e poi ho lasciato andare via distrattamente. In quante notti e quanti fondi di birra ho lasciato parte della mia storia e delle mie esperienze. Talvolta le ho blindate e tante altre invece le ho perdute senza affanni.
In tutto questo come corde di un violino pizzicate, le intensità che di volta in volta invece si impossessano di me io le rilascio sotto forma di altre note e di tremori. Condizionato da quell' alveo di realtà che ho abbandonato, e concentrato soprattutto su quella parte di sogno che affiora laddove lo spazio empirico cede il passo all' effimero ed al creativo, e dove altri suoni vanno a mescolarsi a quelli miei, fra quei toni avvolgenti che lentamente poi si placano rilasciandosi ad una realtà che ora ritorna mutata e ricomposta in tutti i suoi molli tasselli umidi di tempo andato.
Corrimano come scivoli ed assestamento fra le gravide mutevoli crisalidi che sbocciano liberandosi in farfalle. Così i pensieri miei abbandonano distrutti per poi raccogliersi dentro quei battiti di ali colorate che mi spingono fra le onde e che allontanano. Crogiola in una nicchia di marea che lo accompagna, dentro saliva e custodia ovattata rapprende per poi filare dolcemente della seta che si fa tessuto tutta insieme.
Semplice inclinazione al possesso ed all' esperimento dove la materia e' il pensiero e che non ha sostanza. Spessori e clima, dentro canicole di lucide cuti ed in pensieri stantii che si ribellano, vuoto il mio sacco al cospetto di chi lo sta sciogliendo e che mi scioglie.
Vomita fuori idea come sorgente e come sotto il sole evapora, ricorda il ghiaccio sofferente che lo incontra e che non lo sconfigge. Un' idea, intoccabile ed impeccabile, finalmente chiusa dentro i confini di uno scritto e che con questo caldo la abbandona e al tempo stesso la imprigiona. Scivola via una nuova idea dentro quel recipiente che raccoglie molli tessere di un domino finito e da ricostruire. Le curve son raccolte ed ogni irregolarità, ciascuna critica, evapora di nuovo come fosse il nulla e dunque al nulla mi abbandono anch' io col muro che ho dentro, fr ai miei pensieri e fra le cose che ho deciso di tenere in mezzo a tutte le altre andate via.


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25/06/16

Pagine di un libro chiamato Vivere.




          Più facile andare via, allontanarsi. E' sempre più facile. Come non vedere ed ostinarsi a non voler vedere. Eppure gli input, i segnali, talvolta sono così evidenti da far apparire un individuo quasi comico nella sua assurda ostinazione. Come un mendicante che raccoglie pietre e vuol donargli forma appare artista, oppure che pietendo porge il palmo di una mano vuota nell' attesa di qualcosa, e ci fa pena.
A correggere e filtrare quell' idea che si ha degli altri siamo sempre e solo noi, mentre negli altri, curiosi artisti celati oppure penosi mendicanti, si disinteressano dello schema e delle linee che irretiscono il nostro cervello e che ci fanno giudicare. Volumi rigonfi e strane ellittiche fobie, nascoste dentro le più aride certezze e dietro la moneta. Quello che abbiamo ci basta quasi sempre per serrare noi stessi e ci divincola dall' effettivo essere per chiuderci dentro dannose ed evanescenti routine. Uno schema che si spezza e che ci lascia abbandonati all' ovvio della superficie senza assaggiare quel nettare racchiuso nell' adorabile insolenza di un insistere. Senza motivi apparenti, anche tacendo, ma conclamando vicinanza e solida costanza a chi va via anni luce dalle siepi dolci di un' alcova che rimane abbandonata.
Abitano in lui tutti quei dubbi propri di chi vuole risposte e che le sa ascoltare. Disintegra le sicurezze per cospargerne di ansiosa novità e succosa essenza. Porre rimedio e' quasi sempre vocazione utopica, ma ritornare e avere ancora quel coraggio di rivivere nell' esatta maniera lo sorprende, fino a fargli assaporare ancor di più ciò che in se stesso voleva andare via senza mai essere filtrato.
Cicli. Pagine di un libro che chiamato vivere. Tutto appare così rotondo e senza ledere a nessuno, non si spezza nulla che non voglia rompersi davvero. Come curve dolci ci intarsiamo dentro un legno fragile per poi sortire effetti che lo spaccano. La segatura chiara sembra scarto, ma alla fine di quei vortici, raccolta, isola da tutto il resto ed alimenta. La dispersione e' come una vanesia coscienza che si perde dentro meandri incomprensibili di pure convinzioni. E aspetto, andando via per poi tornare indietro, che nelle mie insistenza si affievolisca il tono degli elogi a ciò che e' familiare, facendo invece emergere tutto quel dubbio per la strada sconosciuta e che si mostra.
E' un abito ad hoc per la serata giusta, dove la gente giusta beve bene e con educazione si cimenta in un bisbiglio raffinato che non duole mai a nessuno. Ma al contempo e' vuoto, come l' androne di un castello caduto in disuso dove le ragnatele si sono impossessate di quei teli bianchi che coprono il mobilio per non farlo rovinare. Passeggiandoci attraverso affiorano quegli antichi suoni conviviali dove amanti ed amate cercavano riparo sulle scale e dove invece amanti del bicchiere si affogavano nelle più concrete tazze che svuotavano le botti alla cantina.
Lamina di un tempo andato che ritorna con equidistanti voglie ed altrettante soluzioni. Dove tutto resta la stessa cosa perpendicolare al tempo e dove un quasi sogno ci racconta di quella realtà che fu, donandoci più soluzioni per lo stesso identico quesito.
Nastri di lana e seta adesso avvolgono quello che e', serrandolo e impedendogli di andare via, mentre spumose nuvole di passato affiorano con i profumi e con i suoni mescolandosi a tutto quel costrutto che non si e' voluto abbandonare e che caratterizza.
Ermetiche chiusure che deflagrano facendo esplodere tessuti e ragnatele, rivolgendo al tempo l' immediata spinta di quell' esperienza che non se n' e' andata. Imbuti di un presente dove affondano certezze e affinità per convogliarsi dentro la clessidra dell' essenza e di un' altra attualità che va scoprendosi come interpretazione. Mescola di spasmi ed emotive digressioni su di un tempo che soltanto adesso ci accorgiamo ci attraversa, al netto di una follia mai raccontata, e di tutte quelle insane voglie che lasciamo lì in un angolo a lasciar passare vita nell' attesa che altri cicli ci ricordino che sono andate via in modo diverso da come volevamo.



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16/06/16

Sulla strada per Sheki.




       Passata la buriana placa il vento e torna ad ascoltare quel che di se ha lasciato a terra. Raccolto fra le frange di un benessere che lo pervade schiaccia dei bottoni per accedere alla linfa nuova che gli scorre al fianco e che lo irrora. Nuvole si aprono come cerchi facendo piovere fasci di luce sul terreno e dal terreno un' ombra affiora dove gemiti sono inghiottiti da radici spesse e da fangose masse di corteccia. Fiele e velenosa iattura quell' idea che cavalca mentre una nuova giungla di pastelli si dipinge tutt' intorno. Meccanica scissione fra le colline di fango e quelle basi, così liquide che sotto il peso delle stesse collassano per divenire sfera con un nuovo anello al centro. Alberi di parrozia sorreggono legando a loro un falsopiano che altrimenti annegherebbe sotto l' incedere di quel calore fuso. Fuochi fatui pronti ad esplodere alimentano fiammelle che, come lucciole, di notte illuminano indicando ostacoli, e negli stessi fra un color arancio e l' altro, e il rosa, e arancio ancora, trova la forza di correggere il cammino e la benevolenza del terreno che lo aiuta a non cadere. Pendii scoscesi attendono, mostrando la diversità in una ricchezza unica. Macchie di neve e guano, rimane a contemplare il cuore di quell' opera che adesso asciutta si diffonde. Colori colano come il vapore di uno strano magma che si sposa con il mare, e nello stesso strano mare atipiche reazioni e continue ricerche permettono al contempo di sfruttare e conservare tradizione come fosse dei millenni un indice raccolto in un sottile tomo. Selve del fiume Kish, affacci di molteplici terrazze fra le veglie di una caccia che si sta per consumare. Mescola il risveglio e il fiato di radura mentre l' alba scioglie e affumica quel caravan serraglio dove viandanti e cavalieri si risvegliano per allungare i rispettivi viaggi.
Piccole tessere di vetro colorato, l' una nell' altra senza che a legarle sia alcunché. Tasselli del tempo spezzati fra una notte e un giorno, fra un millennio e un altro, ad affermare con mano sapiente che l' arte del Palazzo di Sheki e' un albero di dura parrozia anch' esso, ed e' volto non a farsi ammirare, ma a riaffermare, ove chi osserva lo comprenda, che attraverso il tempo anche uno sfortunato naufrago può ritrovare un' isola che gli dia asilo. Quesiti o risposte, oppure entrambi. Attraverso religioni ed incontri, fra stoffe, scambi commerciali e di culture, siamo nell' esatto punto dov' e' passato tutto, ed in quel tutto ora riposa il convincimento che pur se navigato o camminato a lungo nelle verdeggianti praterie di un limbo fra cime innevate, esiste un Eden di confronto e comunione. Pietre come tante e culla al contempo, terra remota eppure prima ad essere calpestata dall' umano divenire. Appaga nelle immagini e nelle richieste ridondanti che alla fine si pretendono. Come una conca di resine lasciate a riposare, il tempo gli passa attraverso brandendo la scure dell' immobilismo, quasi a giocare od uno scherzo o un tiro a chi lo fa passare. Esercizio all' azione ed alla guerra, eppure una pacifica soluzione fra le fronde agitate che raccontano di melograni e di pugnali. Dove i clan, oppure la famiglia sono in cima ad ogni cosa e come tante sorgenti esplorano nella purezza il manto di un concetto che più lento li attraversa. Nebulosa fatalità e nemmeno il tempo di un tè immaginato. E mentre osserva tutta quella bolgia di colore, ironia di una sorte che doveva prevedere, non si accorge che dov' era fermo il tempo in realtà già se n' e' andato. Altra vittima di una staticità che lo possiede e muove.



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15/06/16

La passione dei primordi.




            E se mi leggi lo capisci che stasera penso a te. Anche se non ti ho mai toccata come avrei voluto e come avrei dovuto. Ci sono cose che rimangono dentro custodie spesse come gli anni e si conservano dentro il calore che monta pensandole di tanto in tanto.
Una di queste sei tu, donna insolente che mi sei apparsa come fossi concubina. Hai avuto il cuore di chi osa senza averne il fegato. Ti avrei guardata aggredendo i tuoi capelli per raccoglierli nella mia mano, e questa e' la sera adatta per tutto quello che fra la testa e l' assoluto isterico abominio della parte pubica adesso mi sovviene.
Un collo da leccare e da odorare, con le rotondità di una chiglia esposta come quando la nave e' in rada, con tutte quelle fasce lucide che mi facevano desiderare di arrivare a morderle mentre con l' altra ad esplorare le fattezze delle carni e assaporarne al tatto il palmo e il dorso mi eccitava.
Sagoma da sovvertire e possedere. Agitarsi e poi concedersi, ma lentamente, abbandonando forme e ferendosi di liquido calore e desideri fra le frange di un attonito tremore muscolare.
Scosse, tante piccole scosse, che come cime e vele, ora schiave del vento tirano una nave senza timoniere né timone. Ma quell' idea di starti fra le cosce ancora non va via, di assaporare il gusto di una pelle lucida che ancora mi tortura, immaginando cosa sarebbe se in quel contesto avessi agito come suggerivano gli eventi e non com' era ragionevole pensare.
Persa nei meandri di un bon ton che non ho mai avuto e' oramai la ragionevolezza. Ciò che resta e' un odore che ricordo appena, di quando ti fermavi e quando quel lurido abbraccio aveva il tempo di scrollare dalle mie pulsioni il ribollire del mio sangue. Durava qualche attimo di più, giusto il tempo per concedermi di separare ancora quel labile inutile spessore fra la pelle e il sangue che mi corre dentro accelerato.
Cingerti a me se ti divincolavi per andare. Tenerti fra le braccia fino a farti cedere, fissandoti negli occhi cercando di spegnere il riflesso con quel fuoco che lo sguardo masticava.
Tutto il tuo corpo finiva per abbandonarsi. Mentre ti voltavo per aggiungere ai nuovi pensieri ancora brace, ti prendevo il collo, stringendolo il giusto fra le quattro dita e, misurandolo col palmo della mano, mentre toccava al pollice percorrere volgarmente ed in maniera grave il perimetro della mandibola, anche lei abbandonandosi piano alle mie cure.
Io la scrutavo bene, aspettandone un' esplosione che con il freddo soffocava nuvole di soffice respiro, mentre dal fianco destro, che avevo imprigionato nella morsa per far aderire bene le rotondità del tuo eccitante culo al mio sesso, d' un tratto abbandonava per salire, il dorso della mano, e sperimentato il fianco si voltava divenendo palmo sulla pancia e poi sul seno.
In quel momento anche l' immaginifico ricordo voleva andare via, perché tenendo nella mano e palpeggiando la rotonda ghiandola, sentivo il cuore tuo aumentare i battiti, e quasi esploso ricacciava dentro con torsioni e spasmi il tuo torace, mentre il respiro ti buttava avanti favorendo ancora una migliore conoscenza fra le mie protuberanze e le tue natiche.
Ed e' così che in una frenesia di movimenti schizofrenici cercavo di rimpossessarmi, istante dopo istante, di quell' anca che a tratti continuava a dimenarsi tentando di sfuggire, per poi concedermi un altro passaggio sull' erotica pancia e sulle tue tette, sfruttando tutti i tuoi attimi di cedimento, e cercando di sfiancarti al meglio per portarti nella stessa area di passione dove ero fermo pazientemente ad aspettare che arrivassi.
Analizzando con dovizia di particolari l' esatta forma, le dimensioni, l' eventuale differenza e l' adorabile quesito della forma del capezzolo, contando poi di ritornarci ripetutamente in seguito, non potevo non ammirare i riottosi movimenti del collo, oramai braccato, e il conseguente veleggiare della tua straordinaria profumata chioma.
Ammiravo tutto della donna che sei, con vergognosa maleducazione mi volevo prendere ciò che il desiderio mi aveva spesso frammentato fra la testa e il sesso. Scioglieva liquidi e li scioglie ancora, quando io ti penso, e in un istante la mia mano corre ancora dentro le tue gambe.
Trattando tutto l' accaduto e l' insuccesso come fosse distante in maniera assoluta da tutto il resto, mi sono disegnato un angolo di sudicia passione che mi lega a quella selva di ricordi che ho tentato di sopprimere anche a lungo, pur senza riuscirci. L' ardire di quel frenetico movimento e la mia lingua che assapora, e la tua, tutti quegli angoli di pelle bianca, continuano a lasciarmi dentro uno scrigno di desideri inconfessabili nel quale e' superfluo riflettere, uno scrigno dove tutte le regole appassiscono e fuggono via al cospetto di una selvaggia primordiale percezione dell' altra, dentro e su di me.
Sei stata tutto anche nello spazio dove non sei stata. E se non ci fossi stata non sarei nulla di ciò che adesso sono. Non e' un fiume in piena a sommergere, ma quelle scosse energiche di voglie indicibili che si accompagnano a nottate dove ciò che non e' detto pesa più di mille dighe e ci sconfessa. Quello si, ci sommerge fino a farci annegare in un oblio distante anni luce dal bon ton e dalla buona educazione. E' in quello stesso oblio dove, io credo, si annida la passione dei primordi: quella che tutto permette, quella che tutto perdona, quella che tutto ottiene.


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03/06/16

La contraddizione di Cincinnati.




        Canditi e zucchero filato. Espongono di tutto e sono pieni di colori. Palline da ping pong e piccole brocchette piene d' acqua. E se ne infili una vinci pure un pesce rosso. Distese di croccante, liquirizie e caramelle. Giocattoli e magliette, panini e poi bevande. Eserciti di famiglie che comprimono sul lato della strada, bambini ammaliati da tutte quelle luci ed una eco: "me lo compri?" che quasi come un mantra si diffonde. Alcuni soddisfatti tengono il loro giocattolo fra le mani, le mamme più accorte e parsimoniose mettono la "refurtiva" in borsa abbandonandosi ad un laconico "lo apriamo a casa", come se il gioco preso fosse una conquista da conservare e riservare ai posteri. Qualche creatura piange e qualche altra e' trascinata ma non vuole andare via. In un fiume come questo plotoni di folla masticante assapora, mentre l' odore dei frizzante delle caramelle gommose e del croccante, roba da far cadere i denti, si diffonde ovunque, alternandosi con quello delle carni cotte sulle piastre di ambulanti che servono panini.
Come un immenso circo in movimento, con delle differenze, certo, ma se i cavalli non ci sono e non ci sono i domatori, le giostre ed i cavalli a dondolo saziano comunque quei piccoli sorrisi ed appagano le dolci pretese di tutti quei bambini. Così ero io, bambino, e mi ricordo ancora tutto. Estasiato da quelle immense file di furgoni colorati. La mano di papà e quella di mamma. Io e mio fratello fra la gente ed i rumori, mentre i profumi ci schiacciavano su quelle panche nell' attesa di mangiar qualcosa. Come tante musiche di carillon si alternavano quelle luminescenti giostre a quei furgoni invece, che diffondevano una musica moderna. A far da corollario a tutto quelle luci intermittenti messe dal Comune per accompagnare il tutto.
Logiche commerciali che a suo tempo mi sfuggivano. Pieno di tutte quelle immagini come una banca dati analizzavo rallegrandomi e assorbendo quelle novità che in quei momenti mi facevano felice.
Oggi sono qui, attonito e disgustato, da quanto visto, per fortuna solo visto, nello zoo di Cincinnati. Per la disattenzione di un genitore che non e' nemmeno degno di esser chiamato tale, un piccolo bimbo cade nelle "grinfie" di un gorilla grande e grosso che, per tutta risposta, ma certo ingovernabile nelle reazioni, ha il primo istinto di proteggerlo ed accarezzarlo. Lo prende per la gamba e lo trascina in acqua, poi si ferma, lo alza in piedi e continua a trascinarlo per spostarsi, sotto i nervosi e terrorizzati "oh my God" della folla che assiste in quegli attimi. Una bestia feroce, per quella folla urlante e per quei macabri inservienti di quella struttura anacronistica. Una struttura, quello zoo, che e' esattamente come tutti i circhi che esibiscono animali. Finché povere bestie servono per fare cassa va bene, ma se l' errore umano genera un comportamento, qualunque esso sia, anche non bestiale, allora l' uomo si riprende il suo diritto di decidere di tutto quanto, vita della bestia compresa.
Certo, perché la bestia ci spaventa, ma noi dobbiamo avere il controllo su tutto, anche sulla nostra paura, ma un bambino portato allo zoo no, quello possiamo tranquillamente accantonarlo, perderlo, disinteressarcene e farlo cadere nella "gabbia" di una bestia feroce.
Ed e' proprio così che e' andata. Salvo il bambino, vittima delle attenzioni di un gorilla adulto, morto il gorilla, vittima dell' altrui stupidità e del desiderio umano di avere il controllo, salvo sul proprio figlio caduto (non si sa poi nemmeno come) s' intende, e fatta salva l' incapacità di chi quel posto lo aveva costruito per non fare in modo che quanto successo potesse accadere. Dunque cosa dire?
Bravi gli inservienti, prontamente accorsi per abbattere la bestia. E brava quella mamma, o quel papà, che finalmente riabbracciano il suo bambino ma hanno sulla coscienza la vita del gorilla. Brave tutte le persone in quello zoo, e negli zoo di tutto il mondo, che settimanalmente alimentano un mercato vergognoso frutto solo dell' egoismo dell' uomo. Parliamo dello stesso egoismo che adesso i genitori del piccolo, magari sulla sedia a dondolo fuori da casa (come in tanti bei films americani...), tenendo in braccio la loro creatura, sopravvissuta, penseranno al pericolo scampato, abbracciandolo e forse piangendo, e racconteranno a centinaia di persone dell' accaduto quasi come fossero dei reduci.
Un bravo va anche a quelli del circo, di tutti i circhi, che a trapezisti e clowns alternano domatori di bestie feroci drogate appositamente per mostrare la capacità del domatore senza rischio alcuno per la sua incolumità.
La cosa che resta, l' amaro in bocca per questo ennesimo episodio che denuncia in toto il profondo egoismo dell' uomo: l' abbattimento di una bestia in cattività. Probabilmente i bracconieri, o i cacciatori di un safari, avrebbero potuto fare meglio anzi, sono sicuro che il bracconaggio, o la caccia grossa, come la definiscono, hanno davvero molto più senso. Anche se la lotta resta impari perché fucili e calibri mostruosi regalano un vantaggio troppo grande al cacciatore e troppo svantaggio alla preda, almeno il campo e' aperto e non ci sono muri che possano braccare quelle prede limitandone il movimento.
Ecco, in questo vedo un pò quei pesci rossi dentro le buste di plastica piene d' acqua che riportavo a casa di tanto in tanto quando ero bambino. Ho provato a crescerne più di uno, sacrificandoli tutti al mio egoismo. Ho visitato il circo e lo zoo alcune volte, e pur rimanendo ammaliato sempre dagli incredibili straordinarie esemplari di tigri, leoni, elefanti e quant' altro, a mettermi tristezza sono stati sempre gli uomini, clowns compresi. Riflettendo sull' episodio di Cincinnati, mi domando davvero quanto siano necessarie strutture che mostrano esemplari catturati che non avrebbero altra voglia se non di starsene tranquilli nei loro habitat originari.
Quanto ancora la razionalità tenterà di ingabbiare l' istinto? Per quanto tempo ancora il preconcetto dovrà vincere sulla libertà? E' insito in noi... il controllo intendo, e sarà anche la causa della nostra fine, se non ce ne liberiamo in tempo. Abituandoci al controllo, anzi volendolo, perderemo presto di vista cos' e' l' istinto, ad esempio quello genitoriale, come e' successo a quei due, perdendo il loro figlio e facendolo precipitare in una gabbia di 7/8 metri. Non e' giusto che si prenda una posizione: povero bambino o povero gorilla non serve. Serve disincagliarsi da questo stato emotivo che sommerge la collettività e che ci vuole succubi, in toto, di quanto ci viene propinato. La dove non c' e' una tessera, esiste il biglietto, e viceversa. Dopotutto, non possiamo ignorare che anche l' uomo e' una bestia, e come tale, e' opportuno che riguadagni ciò che e' suo e che lo caratterizza da sempre, a prescindere da tessere e biglietti d' ingresso.



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18/05/16

Cannonate e fiori.




        Cannonate e fiori. Stratagemmi per creare quelle aspettative e al tempo stesso farle naufragare in questa realtà dolente che da tempo oramai ci attanaglia. Rimedi grandi come cave di salgemma, e nelle stesse polveri, medicinali obsoleti che ci aiutano a remare sulla linea di queste acque placide e sempre senza alcuna novità da presentare. Come un cannibale respiro a pieni polmoni per fagocitare il senso di un velluto soffice che mi comprime e si rilascia dilatandomi. Cristalli di luce che lacerano trapassando gli occhi per giungere alle onde liquide che come una noiosa cantilena vanno abbandonandosi verso la riva. Tutto questo e' in me, o meglio sono. Senza antenati ne futura stirpe, cullandomi dentro la brezza che propaga anche al mattino, quando la prima aurora giunge a scogliere le nebbie fra le valli e si rischiara pietra al sorgere del cerchio rosa.
Un setaccio dove sensazioni e ricordi si scontrano per poi filtrarsi nelle reti del tempo. Dove tutto va ad incastrarsi fra ciò che dai primordi si accompagna fino all' ultimo alveare costruito. Viaggiano insipide le futili intuizioni che si sono abbandonate alla grandezza della vetta che distoglie. In questo mare diagonale di brina, dove i cristalli ed il pulviscolo si affrontano per poi legarsi insieme nelle nebbie, dove le cime degli alberi rilasciano come frustate aliti di venti mescolati a profumi di resina, appare in tutta la sua contezza la bellezza del volo di un falco che si leva per la caccia. Esso plana immobile per poi correggere violentemente, padrone delle sue emozioni, e con metodo finalizzato al suo scopo. L' unica nenia appare ciondolandosi dal collo al becco, dove un costante e intermittente incedere della sua testa compie analisi del campo di caccia per ricercarne la preda possibile. Di nuovo cannonate e fiori, dove le stesse aspettative adesso mutano in un' altra vita e in altre potenzialità, cullandosi nel necessario viaggio del rapace e che ha deciso ed ora vaga fra quegli aliti di vento come fosse anch' egli stesso il vento. E in questo nuovo sorgere il croccante frammentato terremoto di quel liquido che si diffonde fino a giungere al terreno. Tutti microsismi fra la materia, la flora ed il risveglio. Le immense intensità di un fiordo e la temperata scena di una prateria, esplosioni intime fra gli aghi ed il fogliame e delusioni macere al terreno che finiscono per divenire linfa per la nuova vita che si affaccia. Coriandoli e pezzi di corteccia si rinnovano gettandosi dai fusti fra le foglie e poi più giù, fino alla terra. Candide rigogliose novità nell' umido sentiero affiorano lanciandosi sopra il terriccio e facendo di vegetazione aridi ricordi fra le nebbie. Corde di legname e ciuffi d' erba fra la brina adesso brillano dentro lo specchio delle prime acque che rimangono a nutrire. Cervi e lontre, poiane e nibbi, ma anche egli stesso, appaiono su quella riva per cercare il primo sorso mattutino. Dall' altra parte un orso bruno scuote il pelo e si massaggia le zampe con la lingua, volta il collo e dai due cuccioli che arrivano a seguirlo si capisce che e' una femmina. Tepore, risveglio, amore. Una natura che esplode e la bruma che va dissolvendosi lentamente. Ricomincia piano la vita per tutto, dondolandosi sui primi rumori di una ritornata attività che a breve si farà spasmodica facendo esplodere in tutta quella sua intensa bellezza sciami di colori e nitide immagini che danno il senso ad un paesaggio che cattura privo solo di quel suo movimento. Un incanto, ed appunto, cannonate e fiori.


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11/05/16

La desertificazione dell' anima.




        Questa struttura urbana avviluppa e ti inghiotte. Quasi come fossero tante unghie di metallo, stringono il collo fino a farmi soffocare. Colate di cemento in lento movimento affondano nella rada dell' asfalto, dove crepe di continuo alimentano feroci e lacere, verso un oblio sommerso di larve, ferraglia e topi che instancabili continuano a scavare.
Cerco di fuggire da questa virale sofferenza buttando lo sguardo oltre il confine. Dal basso il limite del cielo ed i palazzi che lo imprigionano assomigliano ad una gabbia concepita per questo scopo.
Deglutire le tonnellate di una tangenziale percorsa continuamente da ferraglia col motore acceso e' nulla se paragonata all' esplosione edilizia che come funghi ha fatto sorgere delle escrescenze, protuberanze di una cute anziana come cellule tumorali che si diffondono impazzite e verso le quali nessuno fra gli assennati senza potere può nulla.
Una desertificazione dell' anima, che non propaga sabbia ma polveri di calce, cemento e pozzolana. Sviluppa sagome geometriche, ed in quei noiosi parallelepipedi i famosi nuclei abitativi, come criceti nelle rispettive gabbie passiamo la vita a rimanere soli insieme. Asciuga, estingue il desiderio, e la capacità di avvertire il simile nel dissimile. Disintegra il bello e rianalizza inconsciamente perfino il nostro concetto di ampiezza e di quiete.
Occorrono questi edifici forse per ingabbiare le menti ed abituarci a non osare mai? Inamidare le esperienze dei singoli e cristallizzarle dentro il nocciolo di una pesca putrida, rendendo concettualmente impossibile l' elevazione dei primordi, quello che gli antichi sfruttavano come spinta per sollevare l' intelletto e lo spirito insieme ambendo alla più alta idea di indipendenza e libertà.
In pochi simboli come questo esiste il paradosso di questo tempo: ci siamo sdoganati dalle idee dipese per averne delle nostre, e nell' esatto istante in cui tocchiamo libertà inesplorate arrivano altri dogmi ad irretire e chiudere i nostri confini. Come palazzi di cento, mille piani, sognate le esplosioni delle personalità, alzando gli occhi sgretola inghiottendo parti della stessa carta che ci volle inclini alla Poesia od alla Musica.
Svuotati in pochi decenni della gioia e dell' esistenza condivisa, torniamo lentamente alle comunità ma con una visione errata ed allo stesso tempo errante. Vaghiamo fra le soluzioni perse colmi di problemi e di una predisposizione miope al subire.
Operose le api di questo alveare, consapevoli che il lavoro svolto, prestato agli altri e per noi stessi, le risorse umane, oltre ad essere molto più che disumane sciolgono le intensità di ciò che siamo quasi fossimo del miele, adoperandoci soltanto per l' ape regina che desidera esser pingue.
Un eretico di questo tempo chi reclama il suo spazio per la libertà ceduta. Un eretico di questo tempo chi incanala il sogno dentro la sua consapevolezza, e che poi lo pretende. Lingua dritta e mente, libere fino a intercedere fra geometrie ed il cielo e a far esplodere nei simboli questa Cultura che ci vuole assoggettati a noi stessi. Primo nemico quell' incapacità di osservare e di goderne frutto, domandandoci quanta parte del problema arriva dall' esterno e quanta invece risiede in una strana concezione di una macchina teleguidata.
Solventi che agiscono per riportare ad una netta struttura, violate le pressioni anche minime fino a divellere i confini, ascolto il tremolio del terreno mentre i ratti vengono schiacciati come fosse nuova linfa per le fragili cervella di persone nuove.
Sarebbe immensamente calmo un mare che si mescola ad onde placide ed enormi ghiacci che sospingono. Così come ossimoro diverrebbero le onde di tsunami che attaccassero la riva. Il cielo si mescolerebbe all' orizzonte ritirandosi per poi apparire nuovamente sottile nel confine. Ed in quella fessura il resto, colmo di piogge, fulmini, elettricità ed ossigeno, e dove le nuove geometrie dispongono verso i fondali e verso gli archi, ma non verso un soffitto che si cela.


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04/05/16

Urban Beauty.




           Quella del Martedì dopo pranzo era oramai una consuetudine come altre ne avevo spalmate sulla settimana a scandirne il tempo ed il trascorrere. Come per anni lo straordinario happening era l' incontro con Gaspare che con il pullman arrivava e se ne andava cambiando soltanto il pilota accompagnatore. Mai una capigliatura differente, mai una tonalità di brillantina più o meno intensa di ogni volta precedente.
Gaspare era un tipo rimasto agli anni '80. Mi domandavo se non fosse cresciuto mai o se fosse proprio nato in questo modo. Persona cortese, assolutamente gradevole, ma spesso ovvia, quasi noiosa, e quando poi mi licenziava col suo "ciao Robi", all' improvviso tutto il peso di questa sua ovvietà lo portavo via con la vettura insieme a me. Il mio percorso mentale era assolutamente lo stesso, mi ci voleva almeno una decina di curve, la frenata di qualche signorina sbadata ed un paio di semafori per scrollarmi di dosso la pesantezza di quella routine. Credevo di essere nel film "il giorno della grande marmotta". Non so se avete visto quel film, ma parla di un tizio cui tutte le mattine alle 06.03 suonava la sveglia, e tutte le sante mattine doveva affrontare le stesse identiche cose. Era praticamente divenuto ostaggio di questa sua realtà, come in effetti lo ero io di un pullman bianco che arrivava e di un "ciao robi" detto sempre con lo stesso tono, perfetto.
A volta avevo perfino pensato che mi sarei potuto registrare, districandomi semplicemente da quel festival delle ovvietà coi contenuti della settimana precedente; poi non l' ho mai fatto, ma non e' escluso che qualche giorno di qua a venire, magari di Martedì...
Quel Martedì ero arrivato stranamente in anticipo. Avevo anche avuto il tempo per fermarmi a mangiare un pezzo di pizza per pranzo, guardandomi bene, ovviamente dall' acquistarla e consumarla in uno di quei postacci fra la stazione dei treni e quella delle linee dei pullman. Non ci mettevo mai piede. Sarà forse stato per la presenza costante di nomadi a chiedere l' elemosina ( e spesso a "fare" i portafogli dei malcapitati); forse per quel costante via vai di facce che si succedono e che, no si sa il perché, vanno sempre di fretta; o magari per la massiccia presenza di Forze dell' Ordine, spesso somiglianti più a dei bivacchi che ad elementi per dissuadere gli eventuali malintenzionati e, nel caso, braccarli. Poi da qualche anno ci si era messo anche l' esercito, ed io osservavo quei "pischelli" col fucile in braccio vicino alla camionetta verde colloquiare amabilmente fra loro e con la ronda di Carabinieri che di tanto in tanto passava.
Insomma, non mi piaceva il clima, l' ambiente sporco, l' odore della ferraglia dei binari e tutte quelle vetture e quei bus che al passaggio scaricavano sull' asfalto esplosioni di nero denso come un motore diesel anni' 80 che cambia la marcia. Risultato: avevo mangiato in una traversa di Via del Portonaccio, posto mai visto prima e che non vedrò più. Non mi ero fidato della pizza vista sul banco, quindi avevo chiesto al ragazzo che serviva se era possibile aprire un pezzo di bianca per metterci del crudo dentro. Lui, cortesemente, aveva accondisceso e mi ero almeno cautelato dal prodotto stantio della mattina.
Avevo assunto il profilo del dilettante. Io guido e lavoro in macchina, e tutte le categorie che guidano e lavorano in macchina in giro per la caotica Roma, tassisti come autisti dell' Atac, rappresentanti come netturbini, o pony express, come primo dogma (potete anche chiedere, vi diranno...), hanno il calcolo perimetrale e la conseguente scelta dei posti "praticabili" dove fermarsi e mangiare. Chiaramente questo avviene in base alle possibilità di spesa, che determineranno se la tavola calda oppure il ristorante, la pizza a taglio oppure la gelateria, ma "professionisti". Beh, io quel giorno non lo avevo fatto.
Avevo determinato di fretta quella pizzeria, concentrandomi più sul pullman che stava arrivando. Avevo fatto "costruire" la pizza meno rischiosa e me ne ero andato. Continuavo a morderla e masticarla mentre rapidamente mi recavo al solito posto, dove Gaspare mi avrebbe raggiunto per portarmi un rinforzo d' urgenza di caffè che avevo finito.
La zona intorno alla stazione Tiburtina era tutto un cantiere e strade interrotte. La solita gimcana mi aveva permesso sviando, e rischiando di investire un pedone che si ostinava a camminare in mezzo alla strada, di arrivare al punto dove io aspettavo il pullman. A quel punto avevo abbassato i finestrini e spento il motore della vettura. Era Primavera inoltrata, e a dar fastidio quel noiosissimo polline che fioccava come fosse neve, io ero rimasto nell' abitacolo per evitarlo, ma dallo specchietto retrovisore vedevo il chiosco che vendeva bibite e, più in la, quel favoloso "nasone" dal quale sgorgava un getto possente di acqua fresca.
Per un istante pensai che un posto del genere non meritava una fontana così. La politica miope delle gestioni comunali precedenti, aveva fatto si che uno dei pezzi di storia della nostra città, proprio "er nasone", fosse ridotto a mero discorso estetico. Probabilmente la chiusura della gran parte delle fontane era stata voluta sotto la spinta di quelli che con i chioschi e gli ambulanti avrebbero trasformato le bottigliette d' acqua da mezzo litro per i turisti in un impressionante businness, ma così facendo era venuto meno un legame quasi morboso fra la popolazione della nostra città e le sue fontane.
Si, decisamente non lo meritava. La stazione Tiburtina era il risultato di tutte le nefandezze di quella politica rovinosa che teneva Roma in ostaggio. Aveva i suoi cantieri e i suoi lavori in corso, immancabili erano le buche e le voragini per le strade. Si percepiva perfettamente il senso di abbandono e che fosse un territorio di conquista per le scorrerie dei delinquenti. Poi, come se nulla fosse, la straordinaria opera pubblica commissionata all' ingegnere "di grido" di turno che trasformava tutto in un ossimoro estetico che distruggeva la fantasia e la coerenza della scena. In buona sostanza l' ennesima Cattedrale nel Deserto, già, perché le razze stanziali che popolavano quella zona erano numerose come tribù, solo che non ne possedevano la rispettiva disciplina.
Fu proprio in quel mentre, dove mi sentivo spappolato fra la routine di una sequenza già vissuta prima che succedesse, e la dannata ribellione del mio senso estetico a tutto schifo e quel via vai di follia senza meta e di formiche agitate, che un moto reazionario crebbe in un momento dentro di me per farmi esplodere. Dovevo sostituirmi a quella realtà che stavo subendo passivamente. La portiera scattò e fui pronto a scendere. Mi rifugiai nel mio sguardo che adesso voleva ignorare tutto e fuggire. Fissavo l' albero e quel cancello chiuso. Dentro, un giardino abbandonato dove topi e forse serpenti potevano gozzovigliare a piacimento, il tutto a 4 metri dall' asfalto e a 10 dagli stalli della stazione dei pullman. Guardavo tutto nei minimi particolari, ferocemente mi incaponivo sulle scritte ' amore sul cancello e sulle celtiche e falci e martello. Le oscenità che mi stavano riempiendo gli occhi erano comunque riuscite a distogliermi da quell' oblio più vergognoso dentro il quale avevo rischiato di precipitare prima. Avevo dimenticato l' esistenza del chiosco, e la stessa esistenza del "nasone". Non volevo vedere nulla, tant' e' che nell' attesa volsi lo sguardo verso la diramazione della tangenziale e ne raccolsi anche qualche foto. Pensai: "sopra il cemento vedo il cielo", dunque val pur la pena del cemento negli occhi se serve ad osservare il cielo.
Distante da tutto il resto, solo dopo qualche lungo minuto riuscii a dirigere lo sguardo e a ritornare sul terreno. Fu in quel momento che una coppia di persone anziane stava attraversando. Vestiti lisi ed un' età avanzata che non nascondeva acciacchi. Il passo di lui che claudicante si aggrappava a lei, e lei lo sorreggeva. Una giacca e un pantalone largo su delle "Superga" ai piedi. Lei rigorosa. Ce la faceva più di lui, nella sua capigliatura attenta ed ordinata l' ancora viva voglia di sentirsi donna. Isolavo nell' immediato il concetto di dignità e tutto l' amore di una vita esploso in quel tenero gesto. Li fissavo da lontano, mentre piano stavano arrivando. Rimasto immobile per degli istanti lunghi avevo il fuoco nel mio cuore. Grazie a loro, acceso, ora ero vivo, e parte di quel sogno che vivevano per una intera vita. Null' altro in quegli attimi fu più importante. Il brutto di quella scena era anacronistico al cospetto di quella sagoma di un individuo in due dopo tutti quegli anni. Via la stazione, strappata dal terreno, via gli edifici, volati verso il cielo col cemento, l' asfalto e sospesa, la camminata delle due persone anziane.
Chissà se qualcuno li ascolta ancora e li sostiene, così come fa lei con lui nel suo problema. Io debbo dire grazie a questo amore. Un briciolo di intensità nel piatto mare stanco di quella routine voluta per ammazzarci i desideri. In un solo momento tutto vola via e quello che resta e' immensità di un amore da insegnare, Maestri.



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03/05/16

Cimbali e musiche di neve.




         Lunghe, lunghissime ore sotto la tormenta. Cercava di mantenersi caldo come possibile, ma il vento sferzava fino ad entrargli attraverso e non capiva più dove iniziasse il gelo della notte e dove finissero le scosse provocate da quei brividi che lo scuotevano oramai in modo costante. Appoggiato ad un tronco, l' ennesimo tronco, avanzava lasciando solchi profondi nella neve fresca, mentre le tracce lontane scomparivano sotto nuovi cristalli che via via ne cancellavano l' impronta e riportavano uniformità a tutta la scena come s' egli non fosse mai passato prima. Sentiva la folta barba e le ciglia gelare e sciogliersi contemporaneamente. Il calore della cute aggrediva scivolando via un sudore copioso che serrava gli occhi. Tutto alla vista appariva più sottile e l' orizzonte si appiattiva in un 16:9 che talune volte doveva strofinare e poi tergere con l' avambraccio affinché si riuscisse ancora vedere e per non farlo mutare in ghiaccio grazie a quel feroce vento.
Annientate e ora distanti tutte le sue velleità di poter giungere alla meta, vagava come un pendolo attraverso il tempo cadenzando il movimento per ridurne al minimo la spesa ed allo stesso tempo ottimizzarne il risultato. Si era sporto già un paio di volte in alcune radure che gli erano sembrate ottimali per fermarsi a riposare, ma prima una grotta dalla quale usciva un puzzo di carogna e di primordi lo aveva fatto desistere, poi quella sua assoluta convinzione che potesse disturbare il letargo di un orso bruno della montagna, gli aveva consentito di raschiare nel fondo delle sue volontà, adesso fuse con le paure degli spettri e delle sagome immense di quegli assassini feroci che stavano dormendo. L' incedere claudicante disegnava una traiettoria sagomata, mentre le impronte stavano pian piano cedendo il passo a solchi dolci trascinati e stanchi. I rami e la vegetazione rigida grattavano e adesso incominciavano a graffiare, ma anche lo stesso sangue sulle lacere striature del viso coagulava raggelandosi immediatamente ed andando solo a mutare in arancio il colore percepito del sudore al nuovo passaggio dell' avambraccio pronto a detergere ed asciugare.
Violate ed immobili le specie animali di quel buio solo a scatti per la Luna luminoso. Una Luna che di tanto in tanto trasformava in cenere una notte di tenebra dove la neve stava precipitando come frolla su altra frolla e, ove possibile, trasformava il nero degli alberi in un nero ancor più deciso, sotto la mescola di vento e di cristalli nuovi che si andavano depositando tutti intorno. Violacea tormenta ed un suono che piano si diffonde, prima sordo poi sempre più massiccio. Violacee le cime degli alberi funestate dalla rabbia di una neve esplosa e dalle traiettorie delineate dal fruscio fortissimo del vento. Di la dai fitti tronchi si apre una vallata concava ed un improvvisa Luna che si apre fra le nuvole per un rapido istante mostra lumi di una cima che ora appare la. Una mandria di bisonti che in discesa attaccano sembra cacciare via anche il vento. Soltanto quella bassa nebbia fitta e quella neve restano come signore incaute lì per la serata. D' un tratto un costone cede e vede tutto. Più nulla, poi un' altra mandria di bisonti, ora più numerosa. Cavalcano l' intera valle che ho di fronte e temo di affacciarmi. L' immagine di una valanga che precipita l' abisso accarezzandolo per poi trafiggerlo velocemente appare. Solo le polveri di neve mossa giungono ad esplodere fino al confine della macchia scura.
Salvo, lui pensa. Salvo. In un cammino di complesse e già incrostate avversità il passaggio di valanga impatta nel mio tempo più che nello spazio. Vuol dire aspetta e fermati per riposare credo, o per lo meno questo e' il suo messaggio che ricevo. Alberi e salvezza, valle e tremolio piatto di una neve fresca caduta come l' iride di una vetta che dilata. Scioglie ancora il volto fra le lacerazioni ed il sudore, ma adesso scavo. Dal ghiaccio fuggire e trovando il suo giaciglio dentro al ghiaccio. Scava, toglie i guanti e con le mani. Butta via neve ed altra ancora, fino a non sentirne più i residui sulle punte delle dita. Quell' avambraccio che prima detergeva adesso spala, e vuota. Quel buco adesso accoglie, appena nella valle e fra quegli alberi protetto. Poca luce e l' ansimare spinto di un uomo divenuto animale che ricerca nel respiro anche il suo stesso scopo. Compatta e ricurva ora e' l' ellisse che lo accoglie, come una enorme bolla di sapone appare, fra quel bianco friabile e battuto della neve fresca e la salvezza di un nuovo sole che dovrà poi sorgere. In tutto ciò quel lago di umanità che tiene addosso che lo ammala lento, fra quelle sottili linee degli occhi che al risveglio mostreranno un' altra storia di quella sola notte dove la valanga ha ucciso e travolto ma lo ha pure risparmiato.


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