25/06/16

Pagine di un libro chiamato Vivere.




          Più facile andare via, allontanarsi. E' sempre più facile. Come non vedere ed ostinarsi a non voler vedere. Eppure gli input, i segnali, talvolta sono così evidenti da far apparire un individuo quasi comico nella sua assurda ostinazione. Come un mendicante che raccoglie pietre e vuol donargli forma appare artista, oppure che pietendo porge il palmo di una mano vuota nell' attesa di qualcosa, e ci fa pena.
A correggere e filtrare quell' idea che si ha degli altri siamo sempre e solo noi, mentre negli altri, curiosi artisti celati oppure penosi mendicanti, si disinteressano dello schema e delle linee che irretiscono il nostro cervello e che ci fanno giudicare. Volumi rigonfi e strane ellittiche fobie, nascoste dentro le più aride certezze e dietro la moneta. Quello che abbiamo ci basta quasi sempre per serrare noi stessi e ci divincola dall' effettivo essere per chiuderci dentro dannose ed evanescenti routine. Uno schema che si spezza e che ci lascia abbandonati all' ovvio della superficie senza assaggiare quel nettare racchiuso nell' adorabile insolenza di un insistere. Senza motivi apparenti, anche tacendo, ma conclamando vicinanza e solida costanza a chi va via anni luce dalle siepi dolci di un' alcova che rimane abbandonata.
Abitano in lui tutti quei dubbi propri di chi vuole risposte e che le sa ascoltare. Disintegra le sicurezze per cospargerne di ansiosa novità e succosa essenza. Porre rimedio e' quasi sempre vocazione utopica, ma ritornare e avere ancora quel coraggio di rivivere nell' esatta maniera lo sorprende, fino a fargli assaporare ancor di più ciò che in se stesso voleva andare via senza mai essere filtrato.
Cicli. Pagine di un libro che chiamato vivere. Tutto appare così rotondo e senza ledere a nessuno, non si spezza nulla che non voglia rompersi davvero. Come curve dolci ci intarsiamo dentro un legno fragile per poi sortire effetti che lo spaccano. La segatura chiara sembra scarto, ma alla fine di quei vortici, raccolta, isola da tutto il resto ed alimenta. La dispersione e' come una vanesia coscienza che si perde dentro meandri incomprensibili di pure convinzioni. E aspetto, andando via per poi tornare indietro, che nelle mie insistenza si affievolisca il tono degli elogi a ciò che e' familiare, facendo invece emergere tutto quel dubbio per la strada sconosciuta e che si mostra.
E' un abito ad hoc per la serata giusta, dove la gente giusta beve bene e con educazione si cimenta in un bisbiglio raffinato che non duole mai a nessuno. Ma al contempo e' vuoto, come l' androne di un castello caduto in disuso dove le ragnatele si sono impossessate di quei teli bianchi che coprono il mobilio per non farlo rovinare. Passeggiandoci attraverso affiorano quegli antichi suoni conviviali dove amanti ed amate cercavano riparo sulle scale e dove invece amanti del bicchiere si affogavano nelle più concrete tazze che svuotavano le botti alla cantina.
Lamina di un tempo andato che ritorna con equidistanti voglie ed altrettante soluzioni. Dove tutto resta la stessa cosa perpendicolare al tempo e dove un quasi sogno ci racconta di quella realtà che fu, donandoci più soluzioni per lo stesso identico quesito.
Nastri di lana e seta adesso avvolgono quello che e', serrandolo e impedendogli di andare via, mentre spumose nuvole di passato affiorano con i profumi e con i suoni mescolandosi a tutto quel costrutto che non si e' voluto abbandonare e che caratterizza.
Ermetiche chiusure che deflagrano facendo esplodere tessuti e ragnatele, rivolgendo al tempo l' immediata spinta di quell' esperienza che non se n' e' andata. Imbuti di un presente dove affondano certezze e affinità per convogliarsi dentro la clessidra dell' essenza e di un' altra attualità che va scoprendosi come interpretazione. Mescola di spasmi ed emotive digressioni su di un tempo che soltanto adesso ci accorgiamo ci attraversa, al netto di una follia mai raccontata, e di tutte quelle insane voglie che lasciamo lì in un angolo a lasciar passare vita nell' attesa che altri cicli ci ricordino che sono andate via in modo diverso da come volevamo.



Roberto De Sanctis - All Rights Reserved

16/06/16

Sulla strada per Sheki.




       Passata la buriana placa il vento e torna ad ascoltare quel che di se ha lasciato a terra. Raccolto fra le frange di un benessere che lo pervade schiaccia dei bottoni per accedere alla linfa nuova che gli scorre al fianco e che lo irrora. Nuvole si aprono come cerchi facendo piovere fasci di luce sul terreno e dal terreno un' ombra affiora dove gemiti sono inghiottiti da radici spesse e da fangose masse di corteccia. Fiele e velenosa iattura quell' idea che cavalca mentre una nuova giungla di pastelli si dipinge tutt' intorno. Meccanica scissione fra le colline di fango e quelle basi, così liquide che sotto il peso delle stesse collassano per divenire sfera con un nuovo anello al centro. Alberi di parrozia sorreggono legando a loro un falsopiano che altrimenti annegherebbe sotto l' incedere di quel calore fuso. Fuochi fatui pronti ad esplodere alimentano fiammelle che, come lucciole, di notte illuminano indicando ostacoli, e negli stessi fra un color arancio e l' altro, e il rosa, e arancio ancora, trova la forza di correggere il cammino e la benevolenza del terreno che lo aiuta a non cadere. Pendii scoscesi attendono, mostrando la diversità in una ricchezza unica. Macchie di neve e guano, rimane a contemplare il cuore di quell' opera che adesso asciutta si diffonde. Colori colano come il vapore di uno strano magma che si sposa con il mare, e nello stesso strano mare atipiche reazioni e continue ricerche permettono al contempo di sfruttare e conservare tradizione come fosse dei millenni un indice raccolto in un sottile tomo. Selve del fiume Kish, affacci di molteplici terrazze fra le veglie di una caccia che si sta per consumare. Mescola il risveglio e il fiato di radura mentre l' alba scioglie e affumica quel caravan serraglio dove viandanti e cavalieri si risvegliano per allungare i rispettivi viaggi.
Piccole tessere di vetro colorato, l' una nell' altra senza che a legarle sia alcunché. Tasselli del tempo spezzati fra una notte e un giorno, fra un millennio e un altro, ad affermare con mano sapiente che l' arte del Palazzo di Sheki e' un albero di dura parrozia anch' esso, ed e' volto non a farsi ammirare, ma a riaffermare, ove chi osserva lo comprenda, che attraverso il tempo anche uno sfortunato naufrago può ritrovare un' isola che gli dia asilo. Quesiti o risposte, oppure entrambi. Attraverso religioni ed incontri, fra stoffe, scambi commerciali e di culture, siamo nell' esatto punto dov' e' passato tutto, ed in quel tutto ora riposa il convincimento che pur se navigato o camminato a lungo nelle verdeggianti praterie di un limbo fra cime innevate, esiste un Eden di confronto e comunione. Pietre come tante e culla al contempo, terra remota eppure prima ad essere calpestata dall' umano divenire. Appaga nelle immagini e nelle richieste ridondanti che alla fine si pretendono. Come una conca di resine lasciate a riposare, il tempo gli passa attraverso brandendo la scure dell' immobilismo, quasi a giocare od uno scherzo o un tiro a chi lo fa passare. Esercizio all' azione ed alla guerra, eppure una pacifica soluzione fra le fronde agitate che raccontano di melograni e di pugnali. Dove i clan, oppure la famiglia sono in cima ad ogni cosa e come tante sorgenti esplorano nella purezza il manto di un concetto che più lento li attraversa. Nebulosa fatalità e nemmeno il tempo di un tè immaginato. E mentre osserva tutta quella bolgia di colore, ironia di una sorte che doveva prevedere, non si accorge che dov' era fermo il tempo in realtà già se n' e' andato. Altra vittima di una staticità che lo possiede e muove.



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15/06/16

La passione dei primordi.




            E se mi leggi lo capisci che stasera penso a te. Anche se non ti ho mai toccata come avrei voluto e come avrei dovuto. Ci sono cose che rimangono dentro custodie spesse come gli anni e si conservano dentro il calore che monta pensandole di tanto in tanto.
Una di queste sei tu, donna insolente che mi sei apparsa come fossi concubina. Hai avuto il cuore di chi osa senza averne il fegato. Ti avrei guardata aggredendo i tuoi capelli per raccoglierli nella mia mano, e questa e' la sera adatta per tutto quello che fra la testa e l' assoluto isterico abominio della parte pubica adesso mi sovviene.
Un collo da leccare e da odorare, con le rotondità di una chiglia esposta come quando la nave e' in rada, con tutte quelle fasce lucide che mi facevano desiderare di arrivare a morderle mentre con l' altra ad esplorare le fattezze delle carni e assaporarne al tatto il palmo e il dorso mi eccitava.
Sagoma da sovvertire e possedere. Agitarsi e poi concedersi, ma lentamente, abbandonando forme e ferendosi di liquido calore e desideri fra le frange di un attonito tremore muscolare.
Scosse, tante piccole scosse, che come cime e vele, ora schiave del vento tirano una nave senza timoniere né timone. Ma quell' idea di starti fra le cosce ancora non va via, di assaporare il gusto di una pelle lucida che ancora mi tortura, immaginando cosa sarebbe se in quel contesto avessi agito come suggerivano gli eventi e non com' era ragionevole pensare.
Persa nei meandri di un bon ton che non ho mai avuto e' oramai la ragionevolezza. Ciò che resta e' un odore che ricordo appena, di quando ti fermavi e quando quel lurido abbraccio aveva il tempo di scrollare dalle mie pulsioni il ribollire del mio sangue. Durava qualche attimo di più, giusto il tempo per concedermi di separare ancora quel labile inutile spessore fra la pelle e il sangue che mi corre dentro accelerato.
Cingerti a me se ti divincolavi per andare. Tenerti fra le braccia fino a farti cedere, fissandoti negli occhi cercando di spegnere il riflesso con quel fuoco che lo sguardo masticava.
Tutto il tuo corpo finiva per abbandonarsi. Mentre ti voltavo per aggiungere ai nuovi pensieri ancora brace, ti prendevo il collo, stringendolo il giusto fra le quattro dita e, misurandolo col palmo della mano, mentre toccava al pollice percorrere volgarmente ed in maniera grave il perimetro della mandibola, anche lei abbandonandosi piano alle mie cure.
Io la scrutavo bene, aspettandone un' esplosione che con il freddo soffocava nuvole di soffice respiro, mentre dal fianco destro, che avevo imprigionato nella morsa per far aderire bene le rotondità del tuo eccitante culo al mio sesso, d' un tratto abbandonava per salire, il dorso della mano, e sperimentato il fianco si voltava divenendo palmo sulla pancia e poi sul seno.
In quel momento anche l' immaginifico ricordo voleva andare via, perché tenendo nella mano e palpeggiando la rotonda ghiandola, sentivo il cuore tuo aumentare i battiti, e quasi esploso ricacciava dentro con torsioni e spasmi il tuo torace, mentre il respiro ti buttava avanti favorendo ancora una migliore conoscenza fra le mie protuberanze e le tue natiche.
Ed e' così che in una frenesia di movimenti schizofrenici cercavo di rimpossessarmi, istante dopo istante, di quell' anca che a tratti continuava a dimenarsi tentando di sfuggire, per poi concedermi un altro passaggio sull' erotica pancia e sulle tue tette, sfruttando tutti i tuoi attimi di cedimento, e cercando di sfiancarti al meglio per portarti nella stessa area di passione dove ero fermo pazientemente ad aspettare che arrivassi.
Analizzando con dovizia di particolari l' esatta forma, le dimensioni, l' eventuale differenza e l' adorabile quesito della forma del capezzolo, contando poi di ritornarci ripetutamente in seguito, non potevo non ammirare i riottosi movimenti del collo, oramai braccato, e il conseguente veleggiare della tua straordinaria profumata chioma.
Ammiravo tutto della donna che sei, con vergognosa maleducazione mi volevo prendere ciò che il desiderio mi aveva spesso frammentato fra la testa e il sesso. Scioglieva liquidi e li scioglie ancora, quando io ti penso, e in un istante la mia mano corre ancora dentro le tue gambe.
Trattando tutto l' accaduto e l' insuccesso come fosse distante in maniera assoluta da tutto il resto, mi sono disegnato un angolo di sudicia passione che mi lega a quella selva di ricordi che ho tentato di sopprimere anche a lungo, pur senza riuscirci. L' ardire di quel frenetico movimento e la mia lingua che assapora, e la tua, tutti quegli angoli di pelle bianca, continuano a lasciarmi dentro uno scrigno di desideri inconfessabili nel quale e' superfluo riflettere, uno scrigno dove tutte le regole appassiscono e fuggono via al cospetto di una selvaggia primordiale percezione dell' altra, dentro e su di me.
Sei stata tutto anche nello spazio dove non sei stata. E se non ci fossi stata non sarei nulla di ciò che adesso sono. Non e' un fiume in piena a sommergere, ma quelle scosse energiche di voglie indicibili che si accompagnano a nottate dove ciò che non e' detto pesa più di mille dighe e ci sconfessa. Quello si, ci sommerge fino a farci annegare in un oblio distante anni luce dal bon ton e dalla buona educazione. E' in quello stesso oblio dove, io credo, si annida la passione dei primordi: quella che tutto permette, quella che tutto perdona, quella che tutto ottiene.


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03/06/16

La contraddizione di Cincinnati.




        Canditi e zucchero filato. Espongono di tutto e sono pieni di colori. Palline da ping pong e piccole brocchette piene d' acqua. E se ne infili una vinci pure un pesce rosso. Distese di croccante, liquirizie e caramelle. Giocattoli e magliette, panini e poi bevande. Eserciti di famiglie che comprimono sul lato della strada, bambini ammaliati da tutte quelle luci ed una eco: "me lo compri?" che quasi come un mantra si diffonde. Alcuni soddisfatti tengono il loro giocattolo fra le mani, le mamme più accorte e parsimoniose mettono la "refurtiva" in borsa abbandonandosi ad un laconico "lo apriamo a casa", come se il gioco preso fosse una conquista da conservare e riservare ai posteri. Qualche creatura piange e qualche altra e' trascinata ma non vuole andare via. In un fiume come questo plotoni di folla masticante assapora, mentre l' odore dei frizzante delle caramelle gommose e del croccante, roba da far cadere i denti, si diffonde ovunque, alternandosi con quello delle carni cotte sulle piastre di ambulanti che servono panini.
Come un immenso circo in movimento, con delle differenze, certo, ma se i cavalli non ci sono e non ci sono i domatori, le giostre ed i cavalli a dondolo saziano comunque quei piccoli sorrisi ed appagano le dolci pretese di tutti quei bambini. Così ero io, bambino, e mi ricordo ancora tutto. Estasiato da quelle immense file di furgoni colorati. La mano di papà e quella di mamma. Io e mio fratello fra la gente ed i rumori, mentre i profumi ci schiacciavano su quelle panche nell' attesa di mangiar qualcosa. Come tante musiche di carillon si alternavano quelle luminescenti giostre a quei furgoni invece, che diffondevano una musica moderna. A far da corollario a tutto quelle luci intermittenti messe dal Comune per accompagnare il tutto.
Logiche commerciali che a suo tempo mi sfuggivano. Pieno di tutte quelle immagini come una banca dati analizzavo rallegrandomi e assorbendo quelle novità che in quei momenti mi facevano felice.
Oggi sono qui, attonito e disgustato, da quanto visto, per fortuna solo visto, nello zoo di Cincinnati. Per la disattenzione di un genitore che non e' nemmeno degno di esser chiamato tale, un piccolo bimbo cade nelle "grinfie" di un gorilla grande e grosso che, per tutta risposta, ma certo ingovernabile nelle reazioni, ha il primo istinto di proteggerlo ed accarezzarlo. Lo prende per la gamba e lo trascina in acqua, poi si ferma, lo alza in piedi e continua a trascinarlo per spostarsi, sotto i nervosi e terrorizzati "oh my God" della folla che assiste in quegli attimi. Una bestia feroce, per quella folla urlante e per quei macabri inservienti di quella struttura anacronistica. Una struttura, quello zoo, che e' esattamente come tutti i circhi che esibiscono animali. Finché povere bestie servono per fare cassa va bene, ma se l' errore umano genera un comportamento, qualunque esso sia, anche non bestiale, allora l' uomo si riprende il suo diritto di decidere di tutto quanto, vita della bestia compresa.
Certo, perché la bestia ci spaventa, ma noi dobbiamo avere il controllo su tutto, anche sulla nostra paura, ma un bambino portato allo zoo no, quello possiamo tranquillamente accantonarlo, perderlo, disinteressarcene e farlo cadere nella "gabbia" di una bestia feroce.
Ed e' proprio così che e' andata. Salvo il bambino, vittima delle attenzioni di un gorilla adulto, morto il gorilla, vittima dell' altrui stupidità e del desiderio umano di avere il controllo, salvo sul proprio figlio caduto (non si sa poi nemmeno come) s' intende, e fatta salva l' incapacità di chi quel posto lo aveva costruito per non fare in modo che quanto successo potesse accadere. Dunque cosa dire?
Bravi gli inservienti, prontamente accorsi per abbattere la bestia. E brava quella mamma, o quel papà, che finalmente riabbracciano il suo bambino ma hanno sulla coscienza la vita del gorilla. Brave tutte le persone in quello zoo, e negli zoo di tutto il mondo, che settimanalmente alimentano un mercato vergognoso frutto solo dell' egoismo dell' uomo. Parliamo dello stesso egoismo che adesso i genitori del piccolo, magari sulla sedia a dondolo fuori da casa (come in tanti bei films americani...), tenendo in braccio la loro creatura, sopravvissuta, penseranno al pericolo scampato, abbracciandolo e forse piangendo, e racconteranno a centinaia di persone dell' accaduto quasi come fossero dei reduci.
Un bravo va anche a quelli del circo, di tutti i circhi, che a trapezisti e clowns alternano domatori di bestie feroci drogate appositamente per mostrare la capacità del domatore senza rischio alcuno per la sua incolumità.
La cosa che resta, l' amaro in bocca per questo ennesimo episodio che denuncia in toto il profondo egoismo dell' uomo: l' abbattimento di una bestia in cattività. Probabilmente i bracconieri, o i cacciatori di un safari, avrebbero potuto fare meglio anzi, sono sicuro che il bracconaggio, o la caccia grossa, come la definiscono, hanno davvero molto più senso. Anche se la lotta resta impari perché fucili e calibri mostruosi regalano un vantaggio troppo grande al cacciatore e troppo svantaggio alla preda, almeno il campo e' aperto e non ci sono muri che possano braccare quelle prede limitandone il movimento.
Ecco, in questo vedo un pò quei pesci rossi dentro le buste di plastica piene d' acqua che riportavo a casa di tanto in tanto quando ero bambino. Ho provato a crescerne più di uno, sacrificandoli tutti al mio egoismo. Ho visitato il circo e lo zoo alcune volte, e pur rimanendo ammaliato sempre dagli incredibili straordinarie esemplari di tigri, leoni, elefanti e quant' altro, a mettermi tristezza sono stati sempre gli uomini, clowns compresi. Riflettendo sull' episodio di Cincinnati, mi domando davvero quanto siano necessarie strutture che mostrano esemplari catturati che non avrebbero altra voglia se non di starsene tranquilli nei loro habitat originari.
Quanto ancora la razionalità tenterà di ingabbiare l' istinto? Per quanto tempo ancora il preconcetto dovrà vincere sulla libertà? E' insito in noi... il controllo intendo, e sarà anche la causa della nostra fine, se non ce ne liberiamo in tempo. Abituandoci al controllo, anzi volendolo, perderemo presto di vista cos' e' l' istinto, ad esempio quello genitoriale, come e' successo a quei due, perdendo il loro figlio e facendolo precipitare in una gabbia di 7/8 metri. Non e' giusto che si prenda una posizione: povero bambino o povero gorilla non serve. Serve disincagliarsi da questo stato emotivo che sommerge la collettività e che ci vuole succubi, in toto, di quanto ci viene propinato. La dove non c' e' una tessera, esiste il biglietto, e viceversa. Dopotutto, non possiamo ignorare che anche l' uomo e' una bestia, e come tale, e' opportuno che riguadagni ciò che e' suo e che lo caratterizza da sempre, a prescindere da tessere e biglietti d' ingresso.



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