28/01/15

Il nettare dei dogmi.




       Disintegra le sensazioni, spezzettale e concentra l' attenzione sull' umore. Volgi lo sguardo al sole mentre cala, ascolta te stesso e vedi se quel suo calare ti da calore o freddo. Distruggi gli attimi per raccogliere la polvere di ciò che sei davvero. Fa la stessa cosa se vai in una città. Guarda l' insieme, di una piazza, un palazzo, una colonna. Poi spezzali, separali, fai assalire il tuo senso critico dalla tua percezione. Esplora, caccia il bello. Cercalo negli angoli e sulle superfici piane, sulle rotondità come nelle imperfezioni. Nutri i tuoi occhi fino a che le cose non impari a respirarle.
Il mare. L' elemento più simmetrico di tutti e' l' acqua. Linee, altro che linee, e superfici. Sai che c' e' un fondale sotto il piano perché lo hai appreso, ma immagina planimetrie liquide dentro di te per arrivare all' incresparsi e percepire la schiuma delle onde come soluzione. Essa ha camminato all' orizzonte, lenta avvicinandosi ha solcato concave bolle di acqua color mercurio, per poi giungere in prossimità di un universo concentrico di pianeti chiamati granelli ed infrangersi, fino a friggersi sotto il sole, con quel suono acido che si accartoccia sullo scomparire e andare altrove.
Mitiga le stelle, impedisci al cielo di sovrastarti, entra in lui. Nuota nell' aria dondolando agli aliti di vento. Cerca la strada nelle tue caviglie e non sotto i tuoi piedi, come orme ed impronte, come radici, non in movimento ma esposte e fragili agli eventi. Sradica te stesso dalla ragione ed imperversa nel subconscio cercando di toccarlo e di renderlo reale.
Rispetta i tuoi sogni come fossero le parti piane di quegli edifici. Ascolta il senso estetico codificandolo per quello che tu ascolti in te. Raffina gli odori delle cose e mostrati senza preconcetti a quel che ti si pone in fronte. Cruda essenza ascolto, vortici di inchiostro trasparente passano su fogli di aria calda che dissipano. Un melograno lascia a terra uno dei frutti. Raccogli quell' oceano acre di semini croccanti, in quella pelle chiara che si spezza. Spezzetta e frulla, come quel melograno e' un frutto il tuo pensiero. Nutri esso e nutriti di lui attraverso il tuo contorno. Valuta e avvolgi, fino a quando il succo delle cose non sarà del tutto appeso all' angolo che ancora non hai visto ed hai lasciato andare.

Roberto De Sanctis - All Rights Reserved

26/01/15

L' attimo di Giuliano.




         Avevo ripercorso in un istante tutta la mia infanzia passata sulle figurine dei calciatori e nell' attesa che la Domenica arrivasse per viverla di Lazio. Classifiche e campionati erano ininfluenti fin tanto che era la Lazio, e quando il giorno della partita arrivava ero pronto con la mia sciarpa, mentre mio padre, che mi aveva donato quella passione, frenava le mie ansie per un ritardo che non ci sarebbe mai stato, già dalle 10.00 del mattino. Non volevo perdermi nulla, con una devozione quasi religiosa auspicavo di arrivare il prima possibile per non lasciare niente. A colpirmi era la folla, quell' immenso mare di bandiere che vedevo ondeggiare appena entrato. Il campo era sempre stato un dettaglio, volevo soltanto appartenere a quel mare.
Mi esercitavo energicamente durante la settimana per essere pronto per la Domenica, quando la mia voce di bambino si consumava gridando "La-zio, La-zio, La-zio..." e "Forza Vecchio Cuore Biancoazzurro".
Io, che di vecchio non avevo proprio nulla, ma che insieme a mio padre potevo solcarlo quel mare, un mare amico che però quando la Lazio segnava diventava una tempesta meravigliosa di suoni e folla agitata.
Amavo quei colori. Nei giorni dove l' Olimpico era più gremito si potevano confondere col cielo, e l' unico elemento distintivo erano quei tre pali al di sopra del centro della tribuna Tevere sui quali campeggiavano le bandiere dell' Italia, della Lazio e della squadra che di volta in volta affrontava la Lazio.
Vedere quelle maglie celesti rincorrere il pallone era una meraviglia. Agli occhi miei che avevo si e no sette anni importava poco di vedere Spinozzi ed Ambu e non Rumenigge, Vella invece di Zico o di Brady. E pensare che mio padre mi aveva "battezzato" parecchio tempo prima e che, mi racconta, mi aveva dovuto portare via perché piangevo per i petardi che venivano esplosi. Ma poi tutto era cambiato, ero voluto tornare e mi ero innamorato, da un momento in poi la nostra Domenica fu chiusa per Lazio.
Il campo rimaneva comunque ai margini delle mie fantasie di bambino, ero intento a guardare tutte altre cose, ma un giorno anche questo cambiò. Così impegnato a vedere gli spalti, e l' ovvietà delle nostre bellissime maglie celesti, con pantaloncini e calzettoni bianchi, rimasi di stucco quando una volta la Lazio cambiò la muta. Vidi la squadra entrare con delle maglie con una grande aquila blu al centro del petto, su uno sfondo bianco e sotto una striscia orizzontale che separava il celeste, più in basso sulla pancia. Le grandi ali blu proseguivano sulle maniche e sulla schiena, interrompendosi soltanto per fare spazio al numero dei rispettivi giocatori che la indossavano. Rimasi attonito per la bellezza, ma ancor più perché l' anno precedente avevo visto passare varie squadre all' Olimpico, ma nessuna che avesse un qualcosa del genere. Quel giorno le cose cambiarono, mi resi conto di essere, di appartenere a qualcosa di diverso da una squadra di Calcio. Quelle maglie mi attaccavano a loro, o meglio, sentivo di essere io in quelle maglie.
L' attesa, se possibile, divenne ancora più spasmodica. Un bambino come me che stava crescendo nutrendosi di questa passione differente. Parlavo una lingua diversa dai miei compagni di classe, benché ci fossero altri piccoli tifosi, la mia dedizione non era la loro. Loro tifavano per la Lazio, o per la Roma, qualcuno se non ricordo male anche la Juventus. Io avevo un altro approccio, conoscevo giocatori, ruoli e perfino il nome dei vari campi dove la Lazio giocava. Loro tifavano. Io...la Lazio era mia, volevo appartenerle, come fossi una penna di quelle grandi ali, od il becco, oppure gli artigli, io volevo essere la Lazio.
Apparteneva oramai alla mia sfera intima. Per me voleva dire mio padre e mia madre, mio fratello, o i miei nonni. A casa non c' era spazio per qualcosa di differente dalla Lazio, a cominciare da quello straordinario adesivo al centro del mobile a specchio della sala da pranzo a casa di nonno Giovanni. Mia nonna Pasquina era molto attenta all' ordine ed alla pulizia della casa, c' era davvero poco spazio per elementi che lei non apprezzasse. Quello era l' unico vezzo che aveva concesso a mio nonno e a mio zio Umberto, fratello di mia madre, neanche a dirlo, anche lui laziale.
Quelle domeniche importava poco chi avessimo di fronte. Gli anni '80 per la verità furono anche piuttosto avari dal punto di vista dei risultati, ma per come andavano le cose, gli altri potevano anche non scendere in campo, a me interessava soltanto che ci fossero quelle maglie da poter vedere. Questo stato di cose mutò per forza nell' Estate del 1986. Ad un nostro giocatore fu contestata l' accusa di combine. Il signor Vinazzani, aveva pensato bene di andare ad incidere ancora una volta in maniera pesante sulla storia della nostra squadra rituffandoci nel calcio scommesse.
Fu un' Estate calda sotto tutti i punti di vista per la nostra tifoseria. Sebbene io fossi soltanto uno spettatore, coi miei 12 anni, venni a sapere dei primi disordini di cui avevo conoscenza, un fenomeno del tutto nuovo per me che mi ero affacciato così presto al Calcio. La Lazio era stata prima retrocessa in serie C, poi, in un pomeriggio che mi fece "festeggiare" come ad un gol, ripescata, ma con nove punti di penalizzazione per l' illecito da dover recuperare rispetto alle altre squadre.
Insomma, ci volevano morti, ma nell' impossibilità di colpire un popolo senza che questo lottasse per la propria sopravvivenza, ci fu affibbiata una punizione che ai più sembrava sufficiente affinché lo scopo potesse essere comunque raggiunto.
E' del tutto evidente, ed oggi, coi miei quarant' anni lo e' ancora di più, che quei signori non avevano fatto bene i conti. Non solo non avevano compreso con chi avevano a che fare, chi erano i tifosi della Lazio e quanto viscerale e determinato fosse il loro amore per la propria squadra. Trascurarono il nostro grande senso di appartenenza in primis e, colpevolmente e fortunatamente, il valore di quel signore che aveva in mano le redini dello spogliatoio, il valore di quello spogliatoio ed il valore di lei: quella maglia.
Quell' anno tutti, dall' ultimo dei tifosi, forse io, al primo dirigente, diedero tutto alla Lazio. Questo si tramutò in uno spasmodico ed avvincente rincorrere il campionato che, appena fu appianato o comunque parzialmente risolto, ci rituffò in una crisi nera che ci fece ripiombare nelle parti basse di una classifica che ad un tratto ci aveva quasi sorriso.
Parlando con qualunque tifoso laziale, questo vi dirà che quella stagione non poté non concludersi che da Lazio.
E' la mattina di Domenica 21 Giugno 1987. E' una mattinata calda. Per la prima volta nella stagione non devo insistere con mio padre per andare via prima. Sono appena le 10.30 quando salutiamo mia madre e Daniele per andare allo stadio. Quel giorno sono previste 70.000 persone, fra problemi di parcheggio ed affluenza, mio padre ritiene di arrivare con un anticipo che io ritengo giustissimo. In realtà mi rendo perfettamente conto di quanto sta succedendo, e lo vedo, anzi, lo scruto nel volto di papà. E' la prima volta che andando via bacia mamma sulle labbra. "Luigi, ci vediamo dopo". Lui non dice nulla. Partiamo da casa ed arriviamo a via degli Orti della Farnesina senza proferire parola. Gli pongo delle domande ma si limita a dei cenni. Quando gli dico che vinceremo mi passa la sua grande mano dalla nuca sulla testa, strofinandomi i capelli come fa spesso. Parcheggiamo l' auto e saliamo verso il ministero degli esteri. A quel punto mi accorgo che nessuno ha la felicità solita nel giungere allo stadio, uno strano silenzio circonda quella camminata, dove l' unico brusio proviene dai bambini e dai "regazzetti". Ci sono le bandiere, tutti hanno in spalla qualcosa, ma c' e' silenzio. Entriamo allo stadio e mi accorgo ancora di più di quanto questo silenzio sia assordante. Non siamo mai entrati così presto e mai come quel giorno lo stadio e' già colmo, ma tutti tacciono. Migliaia di bandiere sono aperte, ma  senza sventolare se non per il volere del vento. Sono momenti che non dimenticherò mai, pur bambino avverto la tensione che blocca tutti, e mi faccio trasportare anche io in quel silenzio nel quale parlare, o commentare le bandiere o gli striscioni sembrerebbe quasi fuori luogo.
La situazione e' questa: la Lazio ha 31 punti ed ospita il Vicenza, diretta concorrente, che ne ha 32. il Catania (32 punti) va a Cesena, che deve vincere per poter ambire alla serie A. Il Taranto (31 punti) come la Lazio, ospita il Genoa, che vincendo sarebbe certo di salire nella massima serie. Il Campobasso (32 punti) gioca in casa del Messina, che e' tranquillo. La Sambenedettese (32 punti) gioca a Bari, anch' esso tranquillo. Il risultato di Cagliari-Lecce e' ininfluente col Cagliari già in serie C.
Il Taranto regola il Genoa con un rotondo 3-0 e si porta a quota 33 punti. La Sambenedettese espugna Bari per 4-3 con una "strana" tripletta di Paul Rideout, giocatore del Bari, che però non porta alcun frutto ai pugliesi e va a 34. Il Campobasso non va oltre lo 0-0 a casa di un Messina tranquillo ed anch' esso, il Taranto, si porta a 33. Il Catania soccombe al Manuzzi di Cesena per 2-1 ed e' in C.
Col Cagliari già in C e la situazione incerta sugli altri campi, aspettiamo l' ingresso dei giocatori con la consapevolezza che se non si vince si e' retrocessi. Il Vicenza ha un punto in più e ci sono quattro retrocessioni, rimanere sotto al Vicenza vuol dire rimanere sotto anche a chi ci e' davanti, e conseguentemente retrocedere.
Il torpore dello stadio si era spezzato con un ruggito che non dimenticherò mai, quando la consueta uscita dei giocatori appena giunti allo stadio aveva fatto accompagnare il lento passeggiare sul campo con urla e tensione assoluti. Ma altra cosa avvenne quando gli stessi entrarono con le nostre casacche addosso. Quello e' un altro urlo, ossimoro di quello strano silenzio di quel giorno, che porterò con me per sempre. Potevo vedere le aquile, era caldo, ma potevo vederle. Tutti gridavano impazziti ed ebbe inizio immediatamente quel richiamo degli altoparlanti che quel giorno sarebbe divenuto consuetudine. "E' richiesta la presenza di un medico...presso...". Quel giorno i cuori "scoppiavano" per il troppo amore e per l' eccessiva tensione.
Terraneo, Filisetti, Acerbis, Podavini, Gregucci, Camolese, Mandelli, Caso, Magnocavallo, Pin, Fiorini. A disposizione Ielpo, Piscedda, Poli, Esposito e Rizzolo. Allenatore Eugenio Fascetti. Del Lanerossi Vicenza quel giorno ricordo soltanto un giocatore, ma non ha la maglia rossa. Diventerà il mio primo vero nemico, dopo aver smesso dopo poco i panni di avversario. Si frapporrà tutta la partita fra me e la continuazione della mia esistenza. Il ritratto dell' odio ha i calzettoni ed i pantaloncini neri, una maglia con petto e schiena grigia e maniche nere. Ha un numero uno, nero anch' esso, e dei capelli castani "a caschetto": il suo nome e' Ennio Dal Bianco.
Il patos della partita ha inizio ben prima della partita stessa. L' inizio di quell' arrampicata difficilissima ha il suono di un fischietto, quello dell' arbitro D' Elia.
Ricordo un caldo asfissiante, e col passare dei minuti l' incessante incitamento dei tifosi lasciò di nuovo spazio a quel silenzio, interrotto soltanto da qualche "noooooo" per un miracolo di quel signore che salvava la porta vicentina. Ci fu un' azione nel primo tempo, dove un nostro giocatore, che difendeva sotto la Curva Nord, spazzò un pallone e si sentì, in mezzo a 70000 persone, l' impatto tra la pelle dello scarpino ed il cuoio del pallone. Il passare del tempo era inversamente proporzionale al rumore dei tifosi allo stadio. L' intervallo era come fossimo tutti sospesi, non si sentiva altro che un brusio, o qualcosa di simile ad un mugugno. L' esito incerto ci stava prendendo a tutti a pugni nello stomaco.
Il nuovo ingresso in campo ruppe temporaneamente questo stato di cose, ma per pochi minuti, giusto il tempo di accorgersi che la musica non era cambiata: tutti contro uno. A poco valsero le sostituzioni di Magnocavallo e Pin con Poli ed Esposito all' inizio del secondo tempo. Il Mister cercava di alzare il baricentro e di dare più pressione sulle ali, ma cercando anche di contenere un eventuale contropiede del Vicenza che avrebbe significato la fine.
Quel Dal Bianco continuava a volare, mentre le nostre di aquile, tentavano in tutti i modi di rompere quella porta. Mancavano una decina di minuti alla fine della partita, forse qualcosa meno. Si stava vivendo in un clima oramai surreale, rumori di ambulanze, avvisi e richieste di medici, l' ennesimo "no" gridato dalla folla per un nuovo miracolo sportivo di Dal Bianco e il consueto brusio, più basso, sempre più basso.
Eravamo tutti con gli sguardi fissi sulla danza infruttuosa di quel pallone, quando ad un tratto Fabio Poli, con il numero 14, sulla fascia sinistra spalle alla porta, alleggerì per Antonio Elia Acerbis, il quale fece un cross per Angelo Adamo Gregucci, il quale venne anticipato in un contrasto aereo. Un giocatore del Vicenza catturò il rimbalzo e provò a spazzare ma svirgolò il pallone, Esposito lo riprese, alleggerì appena fuori area per Podavini che provò a tirare, sulla traiettoria Giuliano Fiorini, quel giorno col numero 11, stoppò la palla con l' interno destro aggirando il difensore e con l' esterno dello stesso piede calciò il pallone.
Fu l' ultimo momento in cui capii qualcosa, e fu anche il momento in cui, indiscutibilmente, io sentii il rumore più intenso della mia vita. Tremò tutto e in un momento quel silenzio fu annientato dal caos. Un terremoto mi investì all' improvviso e mio padre, con Maurizio ed altri amici iniziò ad urlare. Non ebbi nemmeno il tempo di capire cosa stava succedendo che ad un certo punto fummo sommersi da un' onda di folla. A quel punto mio padre mi sollevò per proteggermi da quell' oceano che ci stava ammutolendo e preoccupato si incurvò per fare da scudo affinché io non rischiassi. La Lazio, noi, avevamo segnato, da una posizione di privilegio, in braccio a papà, riuscii anche a vedere la sua corsa sotto di noi, di Giuliano, e con lui la cinquantina di persone fra fotografi, giocatori, raccattapalle ed inservienti che erano corsi ad abbracciarlo e ad abbracciarsi. Mi misi a piangere in braccio a mio padre, dalla felicità. Io, quel bambino in quell' aquila che finalmente aveva spiegato le sue ali per liberarsi in volo. Piangevo, in un pianto a dirotto, mentre mio padre a quel punto mi stringeva a se. In quell' istante ho avuto tutto, la mia Lazio aveva segnato ed io ero con papà che mi aveva protetto. Lui per me il più forte di tutti, ed ero certo che lo avrebbe fatto, era talmente forte che quando mi lasciò tranquillo mi sembrò davvero strano che stesse piangendo come me.
Credo che quell' istante Fiorini mi regalò non solo la salvezza, Giuliano in quel momento mi regalò la consapevolezza, la famiglia, il rispetto per le cose importanti ed una dignità mista a una forza mostruosa che mi avrebbe fatto crescere in tranquillità negli anni a venire. La Lazio era una questione intima, come lo e' ancora. E' per questo che quando Sabato scorso ho visto l' aquila di nuovo entrare in campo la prima cosa cui ho pensato sono state le mie lacrime e quelle di papà nel giorno di Giuliano. Ho sentito così caldo che era ovvio che mollare non fosse una ipotesi possibile. Quella Lazio, quell' aquila e la gente di quel momento mi hanno regalato ciò che sono. Sono legato a quell' istante indelebile perché per me vuol dire tutto quello che c' e' di importante. Fra queste cose indiscutibilmente la Lazio.
Ovviamente, da Lazio, vincemmo quell' ultima partita, ma non bastò e fummo costretti agli spareggi con Taranto e Campobasso dove un altro momento da Lazio alla fine riuscì a salvarci dal baratro, ma questa e' un' altra storia.
Sabato sera la Lazio perdeva 1-0 col Milan alla fine del primo tempo. Mi piace pensare che il nostro Mister Pioli, rientrando nello spogliatoio e guardando negli occhi i nostri giocatori abbia ripetuto quella frase: "Ci radunammo, furono dette poche cose, chi vuole resti, chi vuol può andar via. Rimanemmo tutti."
Bentornata a casa Lazio.




Sono grato a Luigi Bigiarelli che l' ha creata, a Fortunato Ballerini che e' stato il suo primo grande Presidente, a Sante Ancherani che l' ha amata, ad Olindo Bitetti e Giorgio Vaccaro che l' hanno difesa, a Fulvio Bernardini che l' ha resa vincente per la prima volta, sono grato alla banda del '74 e a quella del -9, come ringrazio il Presidente Cragnotti per avermi regalato le grandi vittorie ed il prestigio internazionale. Ma se non ci fosse stato mio Padre con me, in quel momento come nel resto della mia vita, non sarebbe potuta essere la stessa cosa. Qualcuno direbbe: "di padre in figlio", io preferisco dire che quando hai scelto, e' lì che vai.


Roberto De Sanctis - All Rights Reserved







23/01/15

Esperimento.

 
Al lettore.

       E' la prima volta che mi capita di scrivere così. Progetto strambo o forse con un senso, ma per evitare che chi legge mi ritenga pazzo, per la prima volta su questo blog di scrittura, 26viaggiconunabiro.blogspot.com, mi vedo costretto a fare una rapida introduzione.

INTRODUZIONE

L' esperimento consiste nel far scivolare via i pensieri dalla mente usando come cavatappi la musica. Premetto che non uso droghe (rileggendomi il dubbio mi e' venuto).
Mi piace molto ascoltare il genere Post Rock. Fra gli interpreti più famosi di questa corrente musicale sono indiscutibilmente ( per gli appassionati sarà abbastanza ovvio) i Sigur Ros, un gruppo islandese che canta solo in islandese (anche se negli ultimi due album hanno iniziato ad inquinare qualcosa con l' inglese).
I Sigur Ros hanno una sensibilità particolare nei confronti dell' ambiente ed io mi ritrovo moltissimo nella loro musica (al punto che mi sono ripromesso di recarmi nei luoghi dove e' stata concepita). E'  veramente poco cantata, quasi tutta strumentale.
Ho scelto Takk, che in italiano vuol dire "Grazie", a mio avviso l' album più bello finora da loro prodotto.

Accade così:
io leggo il titolo e mi concentro sul significato del titolo. Questo inevitabilmente porta la mia mente su delle immagini che focalizzo (le prime). Da quel momento parte il brano e vado a nastro dove vanno i miei pensieri.
Chiedo perdono a quelli che troveranno questo progetto assurdo. Chiedo perdono perché lo ripeterò senz' altro ( vediamo anche se modulando un pò i generi musicali). Chiedo perdono a chi non e' piacerà.

A chi va oltre dico, spero possiate carpire i rudimenti del progetto. Oltretutto io non sono uno scrittore (o quanto meno non nel senso di colui che ne fa un' attività). Sto solo esplorando me stesso come faccio da sempre attraverso la scrittura. Mi libera cose che non riuscirei mai a comunicare senza una penna o una tastiera fra le dita. Se vi piacerà, sarò contento, anche se mi rendo conto possa sembrare folle.
Il mio modo di scrivere non ha catene ne tecnica, anzi, magari faccio pure qualche errore, ma non apprezzo ne barriere, ne ipocrisia, ed ove posso cerco sempre di aggirarle (e questa e' la mia vita).

Un' ultima gentilezza. In via del tutto eccezionale, chiedo un aiuto a chi mi legge, tutti. Anche i giudizi eventualmente negativi. Se avete un minuto dopo avere letto, scrivetemi un commento un minimo articolato, che so, tre quattro righe, solo per sapere quali emozioni vi ha suscitato, se lo ha fatto.

Già so che ho una scrittura particolarmente pesante (del resto...), qualcuno forse non ci vedrà nulla. Io sto chiedendo a chi ci ha visto.

Grazie. Takk.

L' autore.




TAKK e GLOSOLI.

            Enfasi e liuti accolgono questa ovatta e queste corde stridule al calore di una piscina termale. Poi lenta intraprende la marcia senza preoccuparsi del disordine intorno e alla ricerca della solita quiete che scuote. Musica e note penetrano e permeano allagando le sinapsi e cullando gli occhi portandoli a tuffarsi in un vuoto sospeso di ironia e dolcezza su vicende malandate. Provvede una voce morbida che come un verso di uccello si propaga nelle valli degli eco percepiti. Ancora questi prati, lontani dagli spruzzi dei geysers, e le coste critiche e severe ammantano fino al volo di un bambino che eleva e cresce negli occhi l' idea di un mare capovolto. Tamburo ed armonia, col freddo e col fumo, come di fronte ad un fuoco scalda il volto e fredda la schiena, ogni tanto rigirandosi come fa lo stomaco quando ci pensa e come fa il cuore quando il sangue decolla nell' intensità di quei paesaggi ai confini, insistenti e desolati, con delle macchie di vita calda qua e la per ricordare che l' ambiente e' tutto e noi siamo parte di questo tutto.

HOPPIPOLLA.

          Trasportato fra le nuvole gli aspetti terreni si perdono per celebrare il suono dell' aria che come un piano diffonde nella litosfera incontri di sensazioni gonfie di significati taciuti e scopre le fette di realtà parallele e visibili. Come influenze e scossoni, come meteoriti frantumate passano e soffiano lasciando quella scia di calore che ricorda da dove veniamo ma che nulla ha a che fare. Drammi e felicità sollevano e fuggono dall' aria così rarefatta, il non respirare muove verso altre comprensioni e la sensazione di vuoto come una scatola di gelato riempie quelle brine mobili che stanno ghiacciando le mie ciglia. La cosa che sorprende e' che se immagino i miei occhi serrati e lo vedo come impedimento non mi vieta di guardare al di la delle cose non dette, quelle dove il silenzio alberga ed e' muro, senza che occorra fare altro oltre ciò che già c' e'.

MEO BLOONASIR.

         Pulsioni cariche di magma bollente scivolano via da vulcani per dipingere e scavare. Come artisti alle prese con le proprie opere modellano soffrendo di quel che ancora non riescono a vedere. Corde e fumi, pietra e canali, mentre gli alberi crollano per essere inghiottiti e l' acre polvere sale da un mare inquieto per far nascere una nuova isola. Bolle da non respirare, code di una colata esplosiva che accarezza il fondale per poi liberarsene e respirare.

SE LEST.

        Schemi cosmici e sciami di stelle isteriche danzano in un vuoto leggero quando un carillon dondola gli anelli di pulviscolo e tutto si fa buio. Da lontano si ode un bimbo che chiama e ricorda riportandomi ai primordi di ciò che ero, affogato negli oggetti che guardavo e modellato dalla creta di tramonto, quando la frutta era matura e l' albero di noce ci rendeva le attenzioni che in silenzio mio nonno aveva dato. Mattoni di stelle cadenti e crepitii sulle cime notturne di un universo concreto dove l' ossigeno non e' nulla. Bulimico nutrimento del sapere e voglia di arrivare a coprire gli spazi dello spazio, fino a giungere ai colori, e scavarne per raccogliere rumori bassi. Di nuovo quel carillon detta i ritmi di una lenta fretta che non c' e'. L' eternità e' in un dio che non conosco, lontano, che scopre e dissemina di espressioni cosmiche. Sciatti passano pianeti morti, e luminose scene esplodono fino a danzare via dalla materia. I piedi sono privi di tatto e come timoni viaggiano il mio corpo fra le Pleiadi e le Iadi, decidendo di appartenervi solo se luminescenti e curiose. Un trono accattivante, per un re che non ha nulla, per un imperatore senza impero ed i cui piedi son timone.      

SAEGLOPUR.

        Pressioni di cortecce e figure geometriche grattano il tintinnio della voce di un bambino al freddo. Onde e schiuma in una noiosa cantilena fuori dalla fattoria. Vocali impazzite e cime di colline accarezzate dal vento dimenano ciuffi di erba verso le direzioni più inconsuete, disegnando parabole curve e convessità dell' ala di un prato folto. Il rumore della breccia sotto i piedi e' mista a fango, in un oblio di sensazioni rare il mare arriva dappertutto, fino ad attraversare anche i pensieri, anche le ossa. E' facile affondare in una pozza o dentro erba madida e soffice. Bene giunga il sole del domani perché questa notte il rumore degli elementi sta spezzando la spina di un' isola che affiora e poi scompare. Morde il destino nelle regole di questo tempo, cavalca le onde e scarta sulle sommità di desideri che non emergono se non per mostrarsi timidi a quella costa che può voler rappresentare la salvezza. Danze, suoni, si spengono, si elevano, e di nuovo quel bambino, che non ha capito che e' lo stesso che ha di fronte e che lo sta guardando per esorcizzare il dubbio di non poterlo rivedere più. In tutto un tratto di terra dura, dove nessuno ascolta e nessuno riflette, di fronte a quel mare entrato nel terreno e quasi piatto come specchio. Sullo sfondo, un dondolio di pinne di orca e qualche foca che dell' isola fa casa insieme ad altre.

MILANO.

        I rumori e le luci di una città sono più vicini quando quella lingua famelica ci inghiotte per trasportarci in un agglomerato di luci riflesse sul terreno, di foglie cadute e di alberi spogli. Edifici come stazioni lunari, accesi da luci di gabbie. Vento e freddo dolce coccolano al cospetto del nostro terreno, ma tutti sembrano non aver tempo per ascoltare quello che questa loro terra di bello dice. Scosse e crude reazioni, di fronte ad un disinteressato uomo che resta fisso ad osservare le bolle di umido sui vetri di una timida pioggia. E ancora altre luci ed altre gocce, fino a quando la pioggia non si fa più insistente ed il suono ordinato dell' auto meccanicamente porta la mia attenzione su di lei e sulla meta. Cori di brusii mormorati sottovoce quando sarebbe il caso di gridarli, ma non sono qui per educare a pensare il loro luogo, ma per raccontare il mio. Le percezioni di cui parlo sono scese con me e sono convinto che negli occhi di quell' uomo fermo riuscirò a suscitare l' interesse per un racconto di un terreno che ai più sfugge e non arriva. Una gemma nata in mezzo ai mari freddi e fumosa e di ghiaccio e nera lava. Pioggia non esisterà se non dagli occhi dove ci sarà la commozione e il pianto, che adesso arriva a me riflettendo sulle occasioni che abbiamo per pensare e che buttiamo via. Non saranno cavalli al galoppo su prati e spiagge a rappresentare la libertà, ma saranno comunque note e voci gravi a disegnare nelle menti sogni che la gran parte della gente hanno smesso di creare. Fuoco, aria, vento, manca tutto questo ad una città come Milano. Fuoco, aria e vento. Fuoco, aria e vento. Fuoco, aria e vento.

GONG.

       Timida voglia di averla, ha paura che tutto possa essere così evanescente ma l' impeto monta quando la vede e la immagina sua. Posseduto dall' amore la possiede ogni volta che vuole nei suoi sogni nascosti del cuore. Clorofilla ed ossigeno per respirare, elementi, criteri e dogmi abbandonati. Tace e si ripete che le cose sono così, e sarà libero solo quando cavalcherà la sua esistenza prescindendo dai timori e dai dolori. Scossa al capo e ricco ingorgo di pensieri mentre la mano disobbedisce ed attraversa lentamente le gambe dell' amata per serrare e renderle distanti. Coriacea resistenza di un petalo che non vuole sfiorire, prende il sopravvento un ansimo ed il fiato si trasforma in un calore insolito che avvolge fino al collo e che la stringe. Periodi, disobbedienza, scoperta, viaggio nel viaggio. Precipita la buona intenzione e si abbandona al fisico tatto ed al profumo, mentre oramai un calore ed un respiro affannato lo accompagnano verso direzioni erette di fortune recondite che volano via col desiderio. Tutto si placa e ci si osserva. No, non può essere che non resisto, aiutami tu con una traccia di te quando eri piccola. Aiutami a dondolarmi nella mia infanzia di scoperte, di ignare incomprensioni e di domande. Sono qui per ascoltare, sono qui per guardare. Io voglio, io ho tentato di prendere e ci sono riuscito, ma adesso qualcosa non va, pertanto ti rendo il tempo affinché tu possa averne beneficio al cuore.

ANDVARI

       Miele dondola sul piano scosceso e osservo il suo incedere come nella ripresa rallentata di un binario eterno senza ciottoli ed erba fra le fronde di una foresta fitta del nord. Rotaie e quell' odore metallico misto ruggine coccola il sonno mentre una libellula immaginaria attraversa l' alto dei vagoni. Stride il freno in prossimità di una stazione sulle nuvole. Valichi e gallerie per un cammino costante verso una metà che non appare se non per i viaggiatori. Salse di melassa e fiocchi, scivolano via col miele nello stesso piano, fino a perdersi nel fondo di un bicchiere trasparente fra cortecce e pigne di abetaie, mentre una fioca luce di candela illumina, mentre scalda, e scioglie ancora cera. Danza in caduta ed il treno si allontana con quel ritmo dormiente di chi non sa più nulla di quanto si e' perduto per la strada.

SVO HLJOTT.

       La musica parte e le viole e quell' arpa mentre le punte delle tue scarpe cominciano a calpestare il terreno in un ordine ritmico che non da respiro. Osservo il tuo volto innamorato dalla tua espressione di sorriso e ti immagino mia, con tutto me stesso per questa vita, un' altra e un' altra ancora. E non e' importante che tu non mi richieda, resta il nostro valzer ed il ricordo che in vecchiaia porterò di averti amato sempre. Grido e piango mentre scrivo, perché il ricordo di un amore annegato così dispera e concretizza isole di smeraldo cullate da suoni come i tuoi. Quella gonna salta come il mio cuore che ti osserva, e mentre il ritmo incalza io penso a questa canzone e a te che sei il l' istante 3.21  e segui un elevarsi verso il cielo dove porti il mio sorriso cupo per tutto quello che vorrei e non posso avere. Chiudi e chiudo anch' io, ti manderò qualche sogno ed in sogno verrai a me, per un' esistenza su un piano differente dove i nostri corpi prendono e si avvolgono per diventare una sola identità, un solo pensiero. Ricordi intermittenti si, sono segmenti, ma di un libro già scritto in vite precedenti quando eri mia e vivevamo insieme, sol piano di un albero, in una capanna come in una villa dell' 800, ma ti ho tartassato di amore, più e più volte ancora, dove era noi non c' e' arrivato nulla, ecco perché aspetto il nulla anche se tu vai, mi sono promesso ad un giorno, alla notte ed alla vita, come ad uno specchio del tempo che si guarda attraverso le vite che ha passato. Balla ancora, fai volare quei tuoi piedi. Fe.

HEYSATAN.

        Qui, la, su. Poi ancora la e qui. Fermo, immobile e quieto. Muovo, ondeggio e vado come un fuscello e ascolto il vento. Una voce carpisce incomprensibile. Vera, va, per ascoltare e commovente si rigenera all' ombra di un tramonto già passato. Sa. Batte e il ferro cuoce e asciuga. Batte. Forse il saldo degli eventi presta il fianco, che come vita libera per arrivare al conto. Riflessi, gorgheggi e bolle di liquido poi nulla. Ritorna, nobile e va via di nuovo.

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21/01/15

Di un torbido elegante.



     Quando tutto resta sospeso per un istante e lo sguardo esce da te per divenire respiro. E' quello l' attimo esatto in cui mi piace perdermi, perché soltanto respirando io lo esploro. La bellezza attende negli angoli piccoli di chi la sa rubare. Lei resta lì, immobile, inconsapevole del vento che la avvolge, e di quel soffio e dello sguardo. Suscita deliri sublimi col suo silenzio, che come petali statici e' fotografia interiore in una scintilla di poesia che innaffia il cuore, già madido di sangue e di emozione. Criteri gettati via, dentro una lavatrice di polveri disordinate, dove ricerca e sogno si confondono, dove voglia e odore sono mescolati, dove il tatto ed il respiro divengono lo stesso immenso scantinato dei raccolti fruttuosi.
Arido e' chi non la ascolta, non la comprende perché non si abbandona. Livelli eterei che scatenano quella foschia ingegnosa che li cela per divenire empirici in quell' attimo. Tutto e' scena, la voluttà assapora, mentre il sipario e' un indumento ormai caduto a terra dove il respiro si confonde alla fatica nuova di una scienza del suo corpo innamorato. Crudi impegni la sua reverenza, in quel pulviscolo di loto si abbandona ad uno sguardo tenue. Cruda si accorge, e spia in me ciò che io fermo vedo in lei. Quella seta nera e' un vortice elettrico mentre il suo porgersi a me in quella maniera mi lusinga. Grimaldello di un alito bianco di gelida brina, torce lo stomaco e i miei brividi divengono fortezza. Quel bosco e quella rupe che ne ha cura, quella lingua fra le valli cupe si disegna e va a morire. Fruscii lenti, selvaggina in cerca di una quiete immaginaria. Tutto e' disordine e violenza, senza chiedere permesso ne possiede. Scosse fra pietre rotte ed aspettative immense che adesso sono spezzate. Si crogiola nell' assoluto immobile che lo accarezza, di un sogno appena immaginato in quell' istante che lo scalda. Cardini che cedono, reti che si stringono, e il colore... Nubi tremano alle vette e lentamente il tutto si ridesta. E' un attimo vedere quel respiro ritornare sguardo. Quel fremito risveglia e dallo stesso cielo si diffonde una eco unica di un nuovo intermittente che mi abbatte. Ritorno alla vita come torna alla vita una fenice, ma fuori da una morte di sogno che non avrei lasciato mai se non per ritornare a respirarla ancora.

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19/01/15

L' istante prima della fine.




         Come se il mare evaporasse, come se il cielo non ci fosse più. Stelle cadute e dardi scagliati, nuvole dense sciolgono e si lacerano come tessuto. Moderne conche e nuovi poli, per nuovi cercatori ed orizzonti. Il magma fumoso dalle viscere si libera ed emerge. Una barriera di umido si avvolge, si dilata lontano dalle falde di un nucleo vomitate fuori. L' inerzia non esiste e gocce si propagano come denti di leone, facendo assomigliare questa esplosione di fiori leggeri ad orbite di elettroni, mentre l' antico atomo e' lì fermo, impoverito e bollente, aspettando che l' evoluzione cessi.
Massa critica e volte celesti, polveri e briciole di spazio. Embrioni di nuova vita si disperdono abbandonando il basamento di ciò che era, come flotte di locuste luccicano. Come galassie lontane si allontanano. Cacciatori e prede al tempo stesso, numeri zero che tendono a infinito. Aliti e corde stridule danno il tono dell' evasione cui si assiste, un' eversione collettiva che esplode all' esterno senza volerne più sapere di tornare. Corde di liquido ellittico e catene di luce nuotano via, come sui fili di una spada lacerano e dividono ancora, sino a frammentarsi ultime in una loro essenza celata, e a scomparire via.
Corse  e recuperi delle masse magmatiche che ancora esplodono e fuoriescono generando ulteriore vapore. Come un pesce pescato che si dibatte, queste lingue di fuoco disegnano strade luminescenti sulla pietra morta di una sfera oramai sguarnita. Molli i fondali di oceani evasi, ancora melmosi per l' antica acqua asciugata. Mostri e creature ignote trovano morti indefinite per l' improvvisa mancanza di pressione. Per pochi istanti scienziati e biologi hanno il loro da fare, in quegli attimi prima che tutto ha fine hanno raccolto campioni, analizzato, quando la fuga degli uccelli prima, e la folle corsa degli animali terrestri poi, avrebbe dovuto quanto meno annunciare l' imminente e razionalizzare cercando la via per non salvarsi.
Altro pulviscolo, altro vapore. Si scioglie la Terra, liquida va via, fra crateri ed esplosioni, fra nuovi canali e nuove valli concentriche. La vegetazione svanisce e le immagini della Luna e di Europa tornano a mente. Rudolf Gantenbrink, con il suo Upuaut, non avrebbe fatto di meglio, se solo a celare il cielo non fosse stato il cielo stesso. La sua creatura avrebbe svolto e sarebbe ancora in grado, ma per quale mondo, e per chi.
Quando la fine arriva e' sempre troppo tardi perché si possa assestare un colpo al destino e tornare all' equilibrio. Il tempo non controlla nulla, ne lo spazio. Sono altre le discipline cui siamo soggetti. Men che meno noi possiamo. Controllare variabili di nostre vite.
Siamo soltanto magma che sgorga da sorgenti incandescenti. Passiamo le nostre vite a raffreddare ed incupirci per diventare scura pietra e lasciare canali come segno od impronta delle nostre esperienze e del passaggio. Questo siamo, inafferrabili come segmenti di aria, tracciati dagli avi e corde tese per ciò che sarà la discendenza. Attimi nel tempo, esperienze tattili nello spazio appena percepito. Sommi monti di piccole vite e pianure innocue di macrostorie incontrollabili. Vivido ricordo di una percezione appena compresa. Elaborazioni di percorsi nuovi e fasi REM di risvegli appena pronunciati. Sillabe di libri spessi.

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Venezia.




       Uniformi di luci e di suoni. Metalliche involuzioni verso l' esclusivo rumore che accende il totale silenzio, un primordio. Carezza il panno della stessa stesa di note come il sorgere del sole ed il primo sciogliersi della rugiada. Una complessità disarmante nel più semplice evolvere della vita, nel solo risveglio. Tambureggiante sorgere e prezioso scrigno il rumore, note di un tempo che attraversa, interiore, e detta ritmi ordinati e catatonici. Automatismi e relazione con ciò che siamo fuori di noi. Forse il tempo, senza dubbio lo spazio, dove ricordi, esperienze ed ambizione si mescolano in un purea di aspettative e voglie taciute. Avanza lenta la gondola per le vie d' acqua, come ripete il suono del tasto più volte per lo stesso identico risultato. Qua e la qualche ponte sospeso, capovolto dal basso accarezza come la mano di una madre comprensiva, mentre quei portoni affondano su quel che sta divenendo ciò che un tempo era. Mitiga il rischio il valore, e quei soffi di vetro e colori al fianco di un fuoco bollente, fondente. Sagome infinite plasma al petto stringe un cuore rinnovato e gelido di acqua passata per il fumo che diffonde. L' artigiano guarda, l' artigiano scruta. Noi stessi all' opera, noi stessi l' opera. Quell' opera così forgiata ed immobile, così preziosa e vana. Mutamenti abbracciano lo scandire degli istanti trascorsi, come l' onda di marea lenta scorre e fatica a mostrarsi. Imperio di denso liquido che quasi olio marca il nuovo confine. Impotente svela la nuova più bassa realtà di un incanto prestato all' aspetto bizzarro degli uomini. "La sfida e' vinta" avran pensato gli avi. Anime rimbalzano nel tempo, e luce sale, e luce scende, mentre un buio intermittente più o meno luminoso di luna scandisce e rappresenta la vera soglia di chi lo cavalca. Freddo a caldo e gli anni son stagioni, e stagioni e lustri, decenni. La goccia che nasce va al mare, quello scherzo che uomini hanno voluto rendere al naturale corso, riprende e lentamente affonda. Desideri di poter avere la meglio e vittorie retoriche. Lei, di nuovi lì, a rivendicare ciò che e' suo. Lei, che si riprende tutto quanto quando vuole. Lei, che nell' incanto di Venezia fa gioire del bello, ma che sta per presentarne il conto. Non ci saranno case ma resteranno gondolieri, a raccontare di una città che fu. Non dispiace che a svanire siano palazzi ed arte, anche se dispiace. La vera perdita sarà quel documento, l' essenza volitiva di coloro che crearono nel sogno quanto poi faticosamente realizzato. Minuziosi dettagli andranno persi come un' Atlantide dei giorni futuri, e con essi l' operosità del desiderio, unico effettivo responsabile che ha dato vita al sogno. Una nuova Indastria, un cerchio di volontà che si cinge intorno al mare e nello stesso mare e' ostaggio. Brusii lontani e schiaffi d' acqua porteranno al fondo sgretolate pietre che come cristalli saranno erose, frantumate, nell' esatto modo in cui un maestro artigiano del vetro di Murano sta lasciando cadere a terra un cavallo colorato di cristallo. La terra lo attende come l' acqua cinge. Il cristallo si frantuma e in un istante vola via l' intento di chi la volle veder sorgere dall' acqua.

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18/01/15

Nelle corde.




        Sogni verticali sull' inchiostro nero, agitano e fanno flettere i pensieri. Come seta danzano nell' aria e trasparenti fluttuano. Un calamaio e il suo pennino, sentieri antichi percorsi in una conoscenza andata via e dispersa nelle nubi di ricordi lontani. Quella mano che stringe e intinge, quelle veroniche disperse sulla carta, dense, danno significato al nero lucido che si cosparge. Ed il suo capo chino osserva e affina, raffina. Scruta, rilegge e traccia, linee e correzioni come ripensamenti e dubbiose intromissioni. Volte alla sagoma del foglio sono le attente dita, ferme per non cancellare altri sbiaditi tratti, fisse sul tessuto filato ed asciutto mentre l' altra mano scivola via verso l' altra estremità danzante come nuovo alito di vento coccolato da una nuvola di soffice zucchero filato.
Polverose notti accompagnano lo scrivano che, mite alla sua lampada, consuma gli occhi e gli occhiali su quelle fioche pagine passate, leggendo e rileggendo per vedere ove questa catena di parole si interrompe per perderne il senso, quel denso, che frantuma l' esperienza al punto tale da suggerne il significato puro. Come percezione scioglie via ed abbandona, concedendosi a tutti indipendentemente da chi lo ha provato, da chi lo ha creato.
Alberi e foglie, loro storia, pioggia alle radici cresce e muta forme dentro identiche realtà. Sfogliano gli stessi come sfogliano pagine, inchiostro e pioggia nutre, foglie e tratti corretti sfumano modificando fino a far cadere veli e a rimanere il netto. Percezioni di realtà, esperienze triturate e nocciole rotte per essere mangiate. Vena e ispirazione montano per esser onde alla riva e non rapide ne cascate. Laghi tranquilli di idee albergano rilassate toccando e poi tornando via mentre rintocchi di campane attendono svanito il tremore sonoro di un incontro che immediato ne giunga un altro, fino a convergere sul momento in cui si possano fermare.
Avido desiderio di idee buttate via e raccolte sulla carta, analisi di concetti e sviluppo dilatato di significati gonfi che rimangono rapiti. Incontrano il silenzio sopra cuoio e copertine, diffondono respiri intensi nell' alveo delle soluzioni possibili. L' ora e' tarda e la storia e' piena di contraddizioni, stacchi e digressioni. Fugace rapina al riposo e promessa di comprensioni di porfido. In tutto questo statico monsone di emozioni, che porta dense nubi all' orizzonte, sospesi i pensieri ed il candido arbitrio lasciano spazio a ventosi interventi di ovattate scuri. Recidono al passaggio gli occhi, chiudono e sobbalzano al rumore sordo di un istante, liberano dalla dottrina dell' inchiostro. A sdoganarsi e' il solo Maelstorm di Allan Poe che invece di intrappolare nella sua spirale evade dalle congetture per portare membra a riposarsi dentro un letto di grano e frumento, come magma il vortice si eleva verso nuvole esplose di arancio, quando il buio abbandona e l' alba arriva a riposare finalmente dopo un terremoto emotivo durato una notte di buio.

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13/01/15

Cripto.




    Frugare negli aspetti più inconsueti delle mie reazioni mi abbottona, mi chiude come un nautilo sulle mie incertezze sulle quali riflettere, sulle novità dalle quali prendere spunto, al solo scopo di valutare se il cammino ha le solite curve e tutte quelle salite, le difficoltà, all'apice delle quali le soluzioni sono quella pianura che ci coccola col suo paesaggio. Selvaggia la fatica mi fiacca, come il tempo e la rassegnazione quando un urlo arriva un sordo ed un pensiero a un muto. Trovare altre vie per la comprensione, per l' analisi, affinché tutto rientri nei medesimi canoni anche se con regole e opere differenti. Scossa è la fronda dei miei pensieri, ciò che vedo ha forme distanti dalla stessa scena fissata da altri, mentre la cornice e' di un colore cupo ma da una rara profondità al chiarore che dall' interno si propaga verso il suo confine. Volumi di nettari intarsiati colano ambra, riflettendo rotondità di bolle incastonate su superfici di solido con la forma di un miele rappreso. Ad agitare la scena una sbuffata di fumo che come nebbia da un che di misterioso ed intrigante, e cela, priva la luminosità e la nitidezza di altari e volti, di sfondi e nebulosi soggetti. Tracciata la linea, vìola le regole e distrugge i convincimenti aprendo però la mente a nuovi orizzonti disegnati di pastello e vimini intrecciato. Cortecce si avvinghiano come nodosi rami per rappresentare una cornice insolita e per essere recipiente di una via nuova di crescita ed ascetismo eremitico. Orme, null' altro che orme. Sono la cronaca dei miei passi già percorsi e mostrano, con la provenienza, anche le possibili direzioni. Calcare di più il passaggio, segnare per convincersi che sia sempre deciso. Ma la frivola idea di accarezzarne il fondo scivola in un oblio condotto verso un centro inafferrato. Immobile si flette cercando ancora il senso di una risposta a domande che non ne hanno. Staticità, lucidità o quasi noia, alimentano il magma cerebrale che produce idee, che come vespe si liberano per esplodere in uno spruzzo di vernice propagato verso il cielo.

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08/01/15

Digressione False Flag.




       Ieri ho visto concretamente come si possa costruire un accadimento delittuoso e trasformarlo immediatamente in politico per alimentare o spostare consensi. L' opinione pubblica e' facilissima da manovrare, ad uso e consumo di poche menti elette che decidono le sorti delle cose.
Non abbiamo imbavagliate le bocche, ma le nostre menti. Rispondiamo, o meglio, reagiamo come automi a fatti che sembrano o che forse sono, senza più interrogarsi sul perché sia così semplice, se non ovvio che i fatti siano davvero ciò che sembrano. Più che paramilitari mi e' sembrato di vedere dei paraculi, e lo dico senza dimenticare le macerie lasciate a terra di quanto accaduto, quindi con il massimo del rispetto per le persone decedute, oramai trattate alla stregua di meri numeri ( ma stiamo arrivando anche a quello già da vivi...).
Ora la provocazione la faccio io. Diamo per assunto che l' Islam sia il male assoluto da combattere.

Stante questo, mi domando:
1) quale altro Stato mediorientale devono attaccare gli Stati Uniti nei prossimi mesi?
2) per quale motivo la Francia non vuole prendere parte al conflitto?
3) il gasdotto "Nabucco" e' terminato oppure va finito l' ultimo pezzo?

La CIA, o forse anche il Mossad, dopo aver fatto le torri gemelle per andare in Afghanistan ed aggirare la Russia nell' "affaire gas"; dopo aver agitato i ribelli siriani contro Assad; dopo aver distrutto l' immagine di Ahmadinejad con la rivolta del 2011; dopo aver tentato di ricattare Putin per portarlo in una guerra nei disordini ucraini e, non riuscendoci, aver fatto crollare il prezzo del greggio per provocare la crisi economica in Russia; cosa devono fare ancora? Che si stanno inventando??? E soprattutto, a chi giova?

Si può avere un' idea così bassa della vita umana da renderla sacrificabile in nome di una libertà fittizia?
A terra giacciono morte delle persone. Come persone si sono affrontate e sono rimaste uccise in Ucraina nei mesi scorsi. Ed in Libia (interessante ciò che dice il giornalista "francese" Thierry Meyssan da Tripoli) come in Tunisia, in Egitto come in Palestina.

Perché non iniziamo col dire che a Giugno si e' quasi rischiata una crisi diplomatica Italia/Bulgaria per via di sto cazzo di gas ( e lo so perché li ne parlavano, qui niente...)?
Perché non torniamo sulla diossina nella minestra di Yushenko?
Perché non cerchiamo di capire se ci possono essere altri responsabili?
Giusto per avere delle risposte un pò meno confezionate, non per altro...poi magari scopriamo che e' successo davvero nel modo in cui ce lo dicono...
Quale ruolo ha avuto Scaramella nell' avvelenamento di Aleksandr Litvinenko?
Perché la comunicazione quando ci parla di delitti avvenuti qui in Italia ( tipo Erba, Cogne, Avetrana, Perugia, ecc...) e' così morbosa mentre su queste cose (importanti anche per la politica ed i rapporti internazionali) e' lasciva e tende subito ad abbandonarle quasi come dessero fastidio?

Di Preiti non voglio nemmeno parlare...

Non sono un sostenitore della teoria della cospirazione, o almeno non ancora, ma sono stanco di essere spettatore di uno spettacolo di marionette manovrate da fili invisibili. Tutelo la libertà mia e del mio senso critico, che ha tutto il diritto di conoscere notizie non filtrate da altri ad uso e consumo di esigenze che non conosco ne mi interessano. Non posso esprimere del tutto ciò che penso, la dodicesima disposizione transitoria della Costituzione Italiana me lo vieta, ma almeno non vorrei bere dal solito bibitone dal quale beviamo da settant' anni. Da questo bibitone ci dicono che il male e' bene mentre il bene e' male. Interpretano al posto nostro fatti ed accadimenti per poi somministrarceli in endovena giorno dopo giorno per convincerci che sono veri. Bere da questo bibitone che e' lì da tutto questo tempo credo sia davvero poco igienico...almeno qualcuno si preoccupasse ogni tanto di spolverarlo...

Voglio avere un' idea mia, in mezzo a questa storia di mondo dove tutto e' di altri o proviene da altri. Almeno l' idea, una mia Idea, Mia.

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04/01/15

Vitae.



    Adagiata la biro l' inchiostro iniziò a correre sul foglio dipingendo traiettorie e, di tanto in tanto interrompendo bruscamente la sua corsa. Come uno slittino che scende su una pista di neve e ghiaccio rallentava descrivendo parabole sinuose e accelerando fino ai termini sospesi. Aveva voglia di uscire e di raffreddarsi sulla carta, questa volta per rimanere come impronta di passaggio, non aveva rispettato nulla al caldo perché ciò che ricordava al calamaio non c' era già più. Quella penna ed il lume, la luce fioca della stanza e quei tendaggi non lo avevano accompagnato. Ora la modernità gli consegnava nuove fantasie ed arredi standard, come testimonianze di memoria collettiva e spicciola da trasportare lungo luci di neon che quasi erano abbagli. Via la poesia dello scrivere, via i tessuti come la seta ed il lino, via anche  l' odore del legno e del petrolio.
Cambia l' ambiente intorno che genera fantasia e contese, riflessioni e sgarbi, ma l' individuo ricurvo su di un tavolo sta lì, come se avesse attraversato l' intera storia dal pennino alla biro, di traverso al tempo. Negozi di sosia rinchiusi nelle forme più disparate: era la produzione industriale, o così la chiamavano, anch' essa frutto della rivoluzione. Avevano adagiato vasche di liquido nero in contenitori microscopici che spesso obbedivano a regole capitalistiche senza senso.
Grandi pensatori, filosofi, scienziati, avevano avuto a che fare con materiali i più semplici possibili e, ove non trovandoli, si erano arrangiati raccogliendo dal terreno ciò che il terreno ad essi dava per poter tramutare l' elegante malleabilità della mente in acute riflessioni da consegnare a chi sarebbe susseguito. Al pennello, allo scalpello, la terra. Essiccata non si buttava ma per farla funzionare, al contrario di oggi, dove veroniche di bianco indicano il termine dell' operosità del mezzo. Il rumore di una pagina voltata, metafora del cambiamento e dell' innovazione. La modernità come la comprensione passano dalla scrittura e dalla lettura. Creazione suscita reazione, di chi scrive a chi ne usa. Come un dipinto a chi lo osserva, colgono significati intrinseci che nei soggetti che lo usano rapiscono.
Voglia il sonno che attanaglia abbandonare, vogliano gli occhi risvegliarsi per donare a se. Un' opera si genera in se stessa, scivolando da una mano curiosa su una tela o su un papiro. Il suo tracciato dondola coi suoi colori fino ad essere fruibile. La comprensione ovvero suscitare altrui emozioni, e liberarsi come bombe di sensazioni recondite che vengono riscoperte e appaiono familiari. La materia e' lì, ad attendere che chi la vuole la prenda. Ascolta silente il richiamo dei cuori preparati a guardarla, come la danza delle orche in caccia chiama ed avvolge fino a rapire e nutrirsi. In quel vortice si avviluppano emozioni e si liberano come le bolle del banco, il quale terrorizzato schiuma fino a sacrificare alcune parti di se come quei muri che cadono dentro noi mentre iniziamo a riflettere. Finita la caccia tutto torna tranquillo, sazi si volta altra pagina e si ripropone, il tutto alla stessa maniera, ma sempre rigenerandosi alle spalle dell' esperienza avuta conoscendo il passato o la storia dalla quale quell' opera deriva. Altri libri da scrivere, altri quadri da pensare. In attesa che le cornici e le copertine gli si formino intorno.

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02/01/15

La piscina di ghiaccio.




       Il vento accarezzava ispido la superficie di quel liquido verde. Quieto si ghiacciava come se fosse imbarazzato per la vergogna. I nostri sguardi fissavano il bicchiere che in una strana e complessa staticità si immergeva nel contesto pur non affondandovi. Tutto aveva un senso che pareva essere cullato, come un mago si libra sospeso mentre le foglie scivolavano via. Ed il loro fruscio ci accompagnava. Shhhhhhhhh...e ancora shhhhhhh. Era il disco costante di quei momenti, e quell' ombrello aperto messo li, un istante da catturare, un altro istante da portare con se per sempre. Recupera! E la sedia scivola. Scivola via come quei momenti passano in memoria, come istanti congelati anch' essi e messi via per una buona cosa. Del camino non si sentiva nemmeno l' odore del legno che bruciava, disperso com' era da quel soffio immediato e gelido verso la valle sottostante, così come eravamo dispersi noi, lontani.
Una scelta fatta di fretta, una scelta azzeccata. Volati via in un' ora per abbandonarci a questo. Lontani da tutto e per tutto, tranne che per le nostre anime. Interiorizzare, riflettere talvolta e' anch' esso un viaggio; su una poltrona sorseggiando whisky vicino ad un fuoco o magari leggendo un libro. Interiorizzare, riflettere, e abbandonarsi a quella scia di vento che ti sostiene guidando le tue sensazioni quando il tuo cervello e' a folle. Trasportati come le foglie dallo stesso vento, dallo stesso soffio.
C' eravamo noi, ma non nei nostri corpi. Come distese di grano agitate attendevamo che tutto rimanesse lì, esattamente dov' era. Attendevamo che tutto quanto intorno non ci deludesse cambiando e tramutando in terrena una percezione eterea, superiore di quell' immobile "per sempre" che stavamo vivendo sospesi.
Fotografare un attimo per ricordarne la sensazione. Fotografare. L' ombrello che vola via lottano, quasi pattinando su quel prato d' acqua ghiaccia, interrompe l' idillio e ci riporta giù coi piedi a terra, ricordando di averli quei piedi, come quando quel grano e' maturo e sta per essere tagliato.
E quegli alberi sottili, fitti, attraversati come ombre dal terreno scuro di fogliame. Stavamo riscendendo da quell' attimo sospeso. Tutto a posto ed un altro cofanetto da conservare di momenti percepiti che volevano volare via ma che ho imparato a trattenere. Interiorizzare, riflettere. Immagini che focalizzo coi profumi e con le brezze. Quel porfido ricorda, quel profumo e quel calore. Mi scalda esattamente nel momento in cui quella realtà e' talmente simile ad un sogno che mi sembra veramente di svegliarmi.

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