04/05/16

Urban Beauty.




           Quella del Martedì dopo pranzo era oramai una consuetudine come altre ne avevo spalmate sulla settimana a scandirne il tempo ed il trascorrere. Come per anni lo straordinario happening era l' incontro con Gaspare che con il pullman arrivava e se ne andava cambiando soltanto il pilota accompagnatore. Mai una capigliatura differente, mai una tonalità di brillantina più o meno intensa di ogni volta precedente.
Gaspare era un tipo rimasto agli anni '80. Mi domandavo se non fosse cresciuto mai o se fosse proprio nato in questo modo. Persona cortese, assolutamente gradevole, ma spesso ovvia, quasi noiosa, e quando poi mi licenziava col suo "ciao Robi", all' improvviso tutto il peso di questa sua ovvietà lo portavo via con la vettura insieme a me. Il mio percorso mentale era assolutamente lo stesso, mi ci voleva almeno una decina di curve, la frenata di qualche signorina sbadata ed un paio di semafori per scrollarmi di dosso la pesantezza di quella routine. Credevo di essere nel film "il giorno della grande marmotta". Non so se avete visto quel film, ma parla di un tizio cui tutte le mattine alle 06.03 suonava la sveglia, e tutte le sante mattine doveva affrontare le stesse identiche cose. Era praticamente divenuto ostaggio di questa sua realtà, come in effetti lo ero io di un pullman bianco che arrivava e di un "ciao robi" detto sempre con lo stesso tono, perfetto.
A volta avevo perfino pensato che mi sarei potuto registrare, districandomi semplicemente da quel festival delle ovvietà coi contenuti della settimana precedente; poi non l' ho mai fatto, ma non e' escluso che qualche giorno di qua a venire, magari di Martedì...
Quel Martedì ero arrivato stranamente in anticipo. Avevo anche avuto il tempo per fermarmi a mangiare un pezzo di pizza per pranzo, guardandomi bene, ovviamente dall' acquistarla e consumarla in uno di quei postacci fra la stazione dei treni e quella delle linee dei pullman. Non ci mettevo mai piede. Sarà forse stato per la presenza costante di nomadi a chiedere l' elemosina ( e spesso a "fare" i portafogli dei malcapitati); forse per quel costante via vai di facce che si succedono e che, no si sa il perché, vanno sempre di fretta; o magari per la massiccia presenza di Forze dell' Ordine, spesso somiglianti più a dei bivacchi che ad elementi per dissuadere gli eventuali malintenzionati e, nel caso, braccarli. Poi da qualche anno ci si era messo anche l' esercito, ed io osservavo quei "pischelli" col fucile in braccio vicino alla camionetta verde colloquiare amabilmente fra loro e con la ronda di Carabinieri che di tanto in tanto passava.
Insomma, non mi piaceva il clima, l' ambiente sporco, l' odore della ferraglia dei binari e tutte quelle vetture e quei bus che al passaggio scaricavano sull' asfalto esplosioni di nero denso come un motore diesel anni' 80 che cambia la marcia. Risultato: avevo mangiato in una traversa di Via del Portonaccio, posto mai visto prima e che non vedrò più. Non mi ero fidato della pizza vista sul banco, quindi avevo chiesto al ragazzo che serviva se era possibile aprire un pezzo di bianca per metterci del crudo dentro. Lui, cortesemente, aveva accondisceso e mi ero almeno cautelato dal prodotto stantio della mattina.
Avevo assunto il profilo del dilettante. Io guido e lavoro in macchina, e tutte le categorie che guidano e lavorano in macchina in giro per la caotica Roma, tassisti come autisti dell' Atac, rappresentanti come netturbini, o pony express, come primo dogma (potete anche chiedere, vi diranno...), hanno il calcolo perimetrale e la conseguente scelta dei posti "praticabili" dove fermarsi e mangiare. Chiaramente questo avviene in base alle possibilità di spesa, che determineranno se la tavola calda oppure il ristorante, la pizza a taglio oppure la gelateria, ma "professionisti". Beh, io quel giorno non lo avevo fatto.
Avevo determinato di fretta quella pizzeria, concentrandomi più sul pullman che stava arrivando. Avevo fatto "costruire" la pizza meno rischiosa e me ne ero andato. Continuavo a morderla e masticarla mentre rapidamente mi recavo al solito posto, dove Gaspare mi avrebbe raggiunto per portarmi un rinforzo d' urgenza di caffè che avevo finito.
La zona intorno alla stazione Tiburtina era tutto un cantiere e strade interrotte. La solita gimcana mi aveva permesso sviando, e rischiando di investire un pedone che si ostinava a camminare in mezzo alla strada, di arrivare al punto dove io aspettavo il pullman. A quel punto avevo abbassato i finestrini e spento il motore della vettura. Era Primavera inoltrata, e a dar fastidio quel noiosissimo polline che fioccava come fosse neve, io ero rimasto nell' abitacolo per evitarlo, ma dallo specchietto retrovisore vedevo il chiosco che vendeva bibite e, più in la, quel favoloso "nasone" dal quale sgorgava un getto possente di acqua fresca.
Per un istante pensai che un posto del genere non meritava una fontana così. La politica miope delle gestioni comunali precedenti, aveva fatto si che uno dei pezzi di storia della nostra città, proprio "er nasone", fosse ridotto a mero discorso estetico. Probabilmente la chiusura della gran parte delle fontane era stata voluta sotto la spinta di quelli che con i chioschi e gli ambulanti avrebbero trasformato le bottigliette d' acqua da mezzo litro per i turisti in un impressionante businness, ma così facendo era venuto meno un legame quasi morboso fra la popolazione della nostra città e le sue fontane.
Si, decisamente non lo meritava. La stazione Tiburtina era il risultato di tutte le nefandezze di quella politica rovinosa che teneva Roma in ostaggio. Aveva i suoi cantieri e i suoi lavori in corso, immancabili erano le buche e le voragini per le strade. Si percepiva perfettamente il senso di abbandono e che fosse un territorio di conquista per le scorrerie dei delinquenti. Poi, come se nulla fosse, la straordinaria opera pubblica commissionata all' ingegnere "di grido" di turno che trasformava tutto in un ossimoro estetico che distruggeva la fantasia e la coerenza della scena. In buona sostanza l' ennesima Cattedrale nel Deserto, già, perché le razze stanziali che popolavano quella zona erano numerose come tribù, solo che non ne possedevano la rispettiva disciplina.
Fu proprio in quel mentre, dove mi sentivo spappolato fra la routine di una sequenza già vissuta prima che succedesse, e la dannata ribellione del mio senso estetico a tutto schifo e quel via vai di follia senza meta e di formiche agitate, che un moto reazionario crebbe in un momento dentro di me per farmi esplodere. Dovevo sostituirmi a quella realtà che stavo subendo passivamente. La portiera scattò e fui pronto a scendere. Mi rifugiai nel mio sguardo che adesso voleva ignorare tutto e fuggire. Fissavo l' albero e quel cancello chiuso. Dentro, un giardino abbandonato dove topi e forse serpenti potevano gozzovigliare a piacimento, il tutto a 4 metri dall' asfalto e a 10 dagli stalli della stazione dei pullman. Guardavo tutto nei minimi particolari, ferocemente mi incaponivo sulle scritte ' amore sul cancello e sulle celtiche e falci e martello. Le oscenità che mi stavano riempiendo gli occhi erano comunque riuscite a distogliermi da quell' oblio più vergognoso dentro il quale avevo rischiato di precipitare prima. Avevo dimenticato l' esistenza del chiosco, e la stessa esistenza del "nasone". Non volevo vedere nulla, tant' e' che nell' attesa volsi lo sguardo verso la diramazione della tangenziale e ne raccolsi anche qualche foto. Pensai: "sopra il cemento vedo il cielo", dunque val pur la pena del cemento negli occhi se serve ad osservare il cielo.
Distante da tutto il resto, solo dopo qualche lungo minuto riuscii a dirigere lo sguardo e a ritornare sul terreno. Fu in quel momento che una coppia di persone anziane stava attraversando. Vestiti lisi ed un' età avanzata che non nascondeva acciacchi. Il passo di lui che claudicante si aggrappava a lei, e lei lo sorreggeva. Una giacca e un pantalone largo su delle "Superga" ai piedi. Lei rigorosa. Ce la faceva più di lui, nella sua capigliatura attenta ed ordinata l' ancora viva voglia di sentirsi donna. Isolavo nell' immediato il concetto di dignità e tutto l' amore di una vita esploso in quel tenero gesto. Li fissavo da lontano, mentre piano stavano arrivando. Rimasto immobile per degli istanti lunghi avevo il fuoco nel mio cuore. Grazie a loro, acceso, ora ero vivo, e parte di quel sogno che vivevano per una intera vita. Null' altro in quegli attimi fu più importante. Il brutto di quella scena era anacronistico al cospetto di quella sagoma di un individuo in due dopo tutti quegli anni. Via la stazione, strappata dal terreno, via gli edifici, volati verso il cielo col cemento, l' asfalto e sospesa, la camminata delle due persone anziane.
Chissà se qualcuno li ascolta ancora e li sostiene, così come fa lei con lui nel suo problema. Io debbo dire grazie a questo amore. Un briciolo di intensità nel piatto mare stanco di quella routine voluta per ammazzarci i desideri. In un solo momento tutto vola via e quello che resta e' immensità di un amore da insegnare, Maestri.



Roberto De Sanctis - All Rights Reserved
 

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