11/05/16

La desertificazione dell' anima.




        Questa struttura urbana avviluppa e ti inghiotte. Quasi come fossero tante unghie di metallo, stringono il collo fino a farmi soffocare. Colate di cemento in lento movimento affondano nella rada dell' asfalto, dove crepe di continuo alimentano feroci e lacere, verso un oblio sommerso di larve, ferraglia e topi che instancabili continuano a scavare.
Cerco di fuggire da questa virale sofferenza buttando lo sguardo oltre il confine. Dal basso il limite del cielo ed i palazzi che lo imprigionano assomigliano ad una gabbia concepita per questo scopo.
Deglutire le tonnellate di una tangenziale percorsa continuamente da ferraglia col motore acceso e' nulla se paragonata all' esplosione edilizia che come funghi ha fatto sorgere delle escrescenze, protuberanze di una cute anziana come cellule tumorali che si diffondono impazzite e verso le quali nessuno fra gli assennati senza potere può nulla.
Una desertificazione dell' anima, che non propaga sabbia ma polveri di calce, cemento e pozzolana. Sviluppa sagome geometriche, ed in quei noiosi parallelepipedi i famosi nuclei abitativi, come criceti nelle rispettive gabbie passiamo la vita a rimanere soli insieme. Asciuga, estingue il desiderio, e la capacità di avvertire il simile nel dissimile. Disintegra il bello e rianalizza inconsciamente perfino il nostro concetto di ampiezza e di quiete.
Occorrono questi edifici forse per ingabbiare le menti ed abituarci a non osare mai? Inamidare le esperienze dei singoli e cristallizzarle dentro il nocciolo di una pesca putrida, rendendo concettualmente impossibile l' elevazione dei primordi, quello che gli antichi sfruttavano come spinta per sollevare l' intelletto e lo spirito insieme ambendo alla più alta idea di indipendenza e libertà.
In pochi simboli come questo esiste il paradosso di questo tempo: ci siamo sdoganati dalle idee dipese per averne delle nostre, e nell' esatto istante in cui tocchiamo libertà inesplorate arrivano altri dogmi ad irretire e chiudere i nostri confini. Come palazzi di cento, mille piani, sognate le esplosioni delle personalità, alzando gli occhi sgretola inghiottendo parti della stessa carta che ci volle inclini alla Poesia od alla Musica.
Svuotati in pochi decenni della gioia e dell' esistenza condivisa, torniamo lentamente alle comunità ma con una visione errata ed allo stesso tempo errante. Vaghiamo fra le soluzioni perse colmi di problemi e di una predisposizione miope al subire.
Operose le api di questo alveare, consapevoli che il lavoro svolto, prestato agli altri e per noi stessi, le risorse umane, oltre ad essere molto più che disumane sciolgono le intensità di ciò che siamo quasi fossimo del miele, adoperandoci soltanto per l' ape regina che desidera esser pingue.
Un eretico di questo tempo chi reclama il suo spazio per la libertà ceduta. Un eretico di questo tempo chi incanala il sogno dentro la sua consapevolezza, e che poi lo pretende. Lingua dritta e mente, libere fino a intercedere fra geometrie ed il cielo e a far esplodere nei simboli questa Cultura che ci vuole assoggettati a noi stessi. Primo nemico quell' incapacità di osservare e di goderne frutto, domandandoci quanta parte del problema arriva dall' esterno e quanta invece risiede in una strana concezione di una macchina teleguidata.
Solventi che agiscono per riportare ad una netta struttura, violate le pressioni anche minime fino a divellere i confini, ascolto il tremolio del terreno mentre i ratti vengono schiacciati come fosse nuova linfa per le fragili cervella di persone nuove.
Sarebbe immensamente calmo un mare che si mescola ad onde placide ed enormi ghiacci che sospingono. Così come ossimoro diverrebbero le onde di tsunami che attaccassero la riva. Il cielo si mescolerebbe all' orizzonte ritirandosi per poi apparire nuovamente sottile nel confine. Ed in quella fessura il resto, colmo di piogge, fulmini, elettricità ed ossigeno, e dove le nuove geometrie dispongono verso i fondali e verso gli archi, ma non verso un soffitto che si cela.


Roberto De Sanctis - All Rights Reserved

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