18/05/16

Cannonate e fiori.




        Cannonate e fiori. Stratagemmi per creare quelle aspettative e al tempo stesso farle naufragare in questa realtà dolente che da tempo oramai ci attanaglia. Rimedi grandi come cave di salgemma, e nelle stesse polveri, medicinali obsoleti che ci aiutano a remare sulla linea di queste acque placide e sempre senza alcuna novità da presentare. Come un cannibale respiro a pieni polmoni per fagocitare il senso di un velluto soffice che mi comprime e si rilascia dilatandomi. Cristalli di luce che lacerano trapassando gli occhi per giungere alle onde liquide che come una noiosa cantilena vanno abbandonandosi verso la riva. Tutto questo e' in me, o meglio sono. Senza antenati ne futura stirpe, cullandomi dentro la brezza che propaga anche al mattino, quando la prima aurora giunge a scogliere le nebbie fra le valli e si rischiara pietra al sorgere del cerchio rosa.
Un setaccio dove sensazioni e ricordi si scontrano per poi filtrarsi nelle reti del tempo. Dove tutto va ad incastrarsi fra ciò che dai primordi si accompagna fino all' ultimo alveare costruito. Viaggiano insipide le futili intuizioni che si sono abbandonate alla grandezza della vetta che distoglie. In questo mare diagonale di brina, dove i cristalli ed il pulviscolo si affrontano per poi legarsi insieme nelle nebbie, dove le cime degli alberi rilasciano come frustate aliti di venti mescolati a profumi di resina, appare in tutta la sua contezza la bellezza del volo di un falco che si leva per la caccia. Esso plana immobile per poi correggere violentemente, padrone delle sue emozioni, e con metodo finalizzato al suo scopo. L' unica nenia appare ciondolandosi dal collo al becco, dove un costante e intermittente incedere della sua testa compie analisi del campo di caccia per ricercarne la preda possibile. Di nuovo cannonate e fiori, dove le stesse aspettative adesso mutano in un' altra vita e in altre potenzialità, cullandosi nel necessario viaggio del rapace e che ha deciso ed ora vaga fra quegli aliti di vento come fosse anch' egli stesso il vento. E in questo nuovo sorgere il croccante frammentato terremoto di quel liquido che si diffonde fino a giungere al terreno. Tutti microsismi fra la materia, la flora ed il risveglio. Le immense intensità di un fiordo e la temperata scena di una prateria, esplosioni intime fra gli aghi ed il fogliame e delusioni macere al terreno che finiscono per divenire linfa per la nuova vita che si affaccia. Coriandoli e pezzi di corteccia si rinnovano gettandosi dai fusti fra le foglie e poi più giù, fino alla terra. Candide rigogliose novità nell' umido sentiero affiorano lanciandosi sopra il terriccio e facendo di vegetazione aridi ricordi fra le nebbie. Corde di legname e ciuffi d' erba fra la brina adesso brillano dentro lo specchio delle prime acque che rimangono a nutrire. Cervi e lontre, poiane e nibbi, ma anche egli stesso, appaiono su quella riva per cercare il primo sorso mattutino. Dall' altra parte un orso bruno scuote il pelo e si massaggia le zampe con la lingua, volta il collo e dai due cuccioli che arrivano a seguirlo si capisce che e' una femmina. Tepore, risveglio, amore. Una natura che esplode e la bruma che va dissolvendosi lentamente. Ricomincia piano la vita per tutto, dondolandosi sui primi rumori di una ritornata attività che a breve si farà spasmodica facendo esplodere in tutta quella sua intensa bellezza sciami di colori e nitide immagini che danno il senso ad un paesaggio che cattura privo solo di quel suo movimento. Un incanto, ed appunto, cannonate e fiori.


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11/05/16

La desertificazione dell' anima.




        Questa struttura urbana avviluppa e ti inghiotte. Quasi come fossero tante unghie di metallo, stringono il collo fino a farmi soffocare. Colate di cemento in lento movimento affondano nella rada dell' asfalto, dove crepe di continuo alimentano feroci e lacere, verso un oblio sommerso di larve, ferraglia e topi che instancabili continuano a scavare.
Cerco di fuggire da questa virale sofferenza buttando lo sguardo oltre il confine. Dal basso il limite del cielo ed i palazzi che lo imprigionano assomigliano ad una gabbia concepita per questo scopo.
Deglutire le tonnellate di una tangenziale percorsa continuamente da ferraglia col motore acceso e' nulla se paragonata all' esplosione edilizia che come funghi ha fatto sorgere delle escrescenze, protuberanze di una cute anziana come cellule tumorali che si diffondono impazzite e verso le quali nessuno fra gli assennati senza potere può nulla.
Una desertificazione dell' anima, che non propaga sabbia ma polveri di calce, cemento e pozzolana. Sviluppa sagome geometriche, ed in quei noiosi parallelepipedi i famosi nuclei abitativi, come criceti nelle rispettive gabbie passiamo la vita a rimanere soli insieme. Asciuga, estingue il desiderio, e la capacità di avvertire il simile nel dissimile. Disintegra il bello e rianalizza inconsciamente perfino il nostro concetto di ampiezza e di quiete.
Occorrono questi edifici forse per ingabbiare le menti ed abituarci a non osare mai? Inamidare le esperienze dei singoli e cristallizzarle dentro il nocciolo di una pesca putrida, rendendo concettualmente impossibile l' elevazione dei primordi, quello che gli antichi sfruttavano come spinta per sollevare l' intelletto e lo spirito insieme ambendo alla più alta idea di indipendenza e libertà.
In pochi simboli come questo esiste il paradosso di questo tempo: ci siamo sdoganati dalle idee dipese per averne delle nostre, e nell' esatto istante in cui tocchiamo libertà inesplorate arrivano altri dogmi ad irretire e chiudere i nostri confini. Come palazzi di cento, mille piani, sognate le esplosioni delle personalità, alzando gli occhi sgretola inghiottendo parti della stessa carta che ci volle inclini alla Poesia od alla Musica.
Svuotati in pochi decenni della gioia e dell' esistenza condivisa, torniamo lentamente alle comunità ma con una visione errata ed allo stesso tempo errante. Vaghiamo fra le soluzioni perse colmi di problemi e di una predisposizione miope al subire.
Operose le api di questo alveare, consapevoli che il lavoro svolto, prestato agli altri e per noi stessi, le risorse umane, oltre ad essere molto più che disumane sciolgono le intensità di ciò che siamo quasi fossimo del miele, adoperandoci soltanto per l' ape regina che desidera esser pingue.
Un eretico di questo tempo chi reclama il suo spazio per la libertà ceduta. Un eretico di questo tempo chi incanala il sogno dentro la sua consapevolezza, e che poi lo pretende. Lingua dritta e mente, libere fino a intercedere fra geometrie ed il cielo e a far esplodere nei simboli questa Cultura che ci vuole assoggettati a noi stessi. Primo nemico quell' incapacità di osservare e di goderne frutto, domandandoci quanta parte del problema arriva dall' esterno e quanta invece risiede in una strana concezione di una macchina teleguidata.
Solventi che agiscono per riportare ad una netta struttura, violate le pressioni anche minime fino a divellere i confini, ascolto il tremolio del terreno mentre i ratti vengono schiacciati come fosse nuova linfa per le fragili cervella di persone nuove.
Sarebbe immensamente calmo un mare che si mescola ad onde placide ed enormi ghiacci che sospingono. Così come ossimoro diverrebbero le onde di tsunami che attaccassero la riva. Il cielo si mescolerebbe all' orizzonte ritirandosi per poi apparire nuovamente sottile nel confine. Ed in quella fessura il resto, colmo di piogge, fulmini, elettricità ed ossigeno, e dove le nuove geometrie dispongono verso i fondali e verso gli archi, ma non verso un soffitto che si cela.


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04/05/16

Urban Beauty.




           Quella del Martedì dopo pranzo era oramai una consuetudine come altre ne avevo spalmate sulla settimana a scandirne il tempo ed il trascorrere. Come per anni lo straordinario happening era l' incontro con Gaspare che con il pullman arrivava e se ne andava cambiando soltanto il pilota accompagnatore. Mai una capigliatura differente, mai una tonalità di brillantina più o meno intensa di ogni volta precedente.
Gaspare era un tipo rimasto agli anni '80. Mi domandavo se non fosse cresciuto mai o se fosse proprio nato in questo modo. Persona cortese, assolutamente gradevole, ma spesso ovvia, quasi noiosa, e quando poi mi licenziava col suo "ciao Robi", all' improvviso tutto il peso di questa sua ovvietà lo portavo via con la vettura insieme a me. Il mio percorso mentale era assolutamente lo stesso, mi ci voleva almeno una decina di curve, la frenata di qualche signorina sbadata ed un paio di semafori per scrollarmi di dosso la pesantezza di quella routine. Credevo di essere nel film "il giorno della grande marmotta". Non so se avete visto quel film, ma parla di un tizio cui tutte le mattine alle 06.03 suonava la sveglia, e tutte le sante mattine doveva affrontare le stesse identiche cose. Era praticamente divenuto ostaggio di questa sua realtà, come in effetti lo ero io di un pullman bianco che arrivava e di un "ciao robi" detto sempre con lo stesso tono, perfetto.
A volta avevo perfino pensato che mi sarei potuto registrare, districandomi semplicemente da quel festival delle ovvietà coi contenuti della settimana precedente; poi non l' ho mai fatto, ma non e' escluso che qualche giorno di qua a venire, magari di Martedì...
Quel Martedì ero arrivato stranamente in anticipo. Avevo anche avuto il tempo per fermarmi a mangiare un pezzo di pizza per pranzo, guardandomi bene, ovviamente dall' acquistarla e consumarla in uno di quei postacci fra la stazione dei treni e quella delle linee dei pullman. Non ci mettevo mai piede. Sarà forse stato per la presenza costante di nomadi a chiedere l' elemosina ( e spesso a "fare" i portafogli dei malcapitati); forse per quel costante via vai di facce che si succedono e che, no si sa il perché, vanno sempre di fretta; o magari per la massiccia presenza di Forze dell' Ordine, spesso somiglianti più a dei bivacchi che ad elementi per dissuadere gli eventuali malintenzionati e, nel caso, braccarli. Poi da qualche anno ci si era messo anche l' esercito, ed io osservavo quei "pischelli" col fucile in braccio vicino alla camionetta verde colloquiare amabilmente fra loro e con la ronda di Carabinieri che di tanto in tanto passava.
Insomma, non mi piaceva il clima, l' ambiente sporco, l' odore della ferraglia dei binari e tutte quelle vetture e quei bus che al passaggio scaricavano sull' asfalto esplosioni di nero denso come un motore diesel anni' 80 che cambia la marcia. Risultato: avevo mangiato in una traversa di Via del Portonaccio, posto mai visto prima e che non vedrò più. Non mi ero fidato della pizza vista sul banco, quindi avevo chiesto al ragazzo che serviva se era possibile aprire un pezzo di bianca per metterci del crudo dentro. Lui, cortesemente, aveva accondisceso e mi ero almeno cautelato dal prodotto stantio della mattina.
Avevo assunto il profilo del dilettante. Io guido e lavoro in macchina, e tutte le categorie che guidano e lavorano in macchina in giro per la caotica Roma, tassisti come autisti dell' Atac, rappresentanti come netturbini, o pony express, come primo dogma (potete anche chiedere, vi diranno...), hanno il calcolo perimetrale e la conseguente scelta dei posti "praticabili" dove fermarsi e mangiare. Chiaramente questo avviene in base alle possibilità di spesa, che determineranno se la tavola calda oppure il ristorante, la pizza a taglio oppure la gelateria, ma "professionisti". Beh, io quel giorno non lo avevo fatto.
Avevo determinato di fretta quella pizzeria, concentrandomi più sul pullman che stava arrivando. Avevo fatto "costruire" la pizza meno rischiosa e me ne ero andato. Continuavo a morderla e masticarla mentre rapidamente mi recavo al solito posto, dove Gaspare mi avrebbe raggiunto per portarmi un rinforzo d' urgenza di caffè che avevo finito.
La zona intorno alla stazione Tiburtina era tutto un cantiere e strade interrotte. La solita gimcana mi aveva permesso sviando, e rischiando di investire un pedone che si ostinava a camminare in mezzo alla strada, di arrivare al punto dove io aspettavo il pullman. A quel punto avevo abbassato i finestrini e spento il motore della vettura. Era Primavera inoltrata, e a dar fastidio quel noiosissimo polline che fioccava come fosse neve, io ero rimasto nell' abitacolo per evitarlo, ma dallo specchietto retrovisore vedevo il chiosco che vendeva bibite e, più in la, quel favoloso "nasone" dal quale sgorgava un getto possente di acqua fresca.
Per un istante pensai che un posto del genere non meritava una fontana così. La politica miope delle gestioni comunali precedenti, aveva fatto si che uno dei pezzi di storia della nostra città, proprio "er nasone", fosse ridotto a mero discorso estetico. Probabilmente la chiusura della gran parte delle fontane era stata voluta sotto la spinta di quelli che con i chioschi e gli ambulanti avrebbero trasformato le bottigliette d' acqua da mezzo litro per i turisti in un impressionante businness, ma così facendo era venuto meno un legame quasi morboso fra la popolazione della nostra città e le sue fontane.
Si, decisamente non lo meritava. La stazione Tiburtina era il risultato di tutte le nefandezze di quella politica rovinosa che teneva Roma in ostaggio. Aveva i suoi cantieri e i suoi lavori in corso, immancabili erano le buche e le voragini per le strade. Si percepiva perfettamente il senso di abbandono e che fosse un territorio di conquista per le scorrerie dei delinquenti. Poi, come se nulla fosse, la straordinaria opera pubblica commissionata all' ingegnere "di grido" di turno che trasformava tutto in un ossimoro estetico che distruggeva la fantasia e la coerenza della scena. In buona sostanza l' ennesima Cattedrale nel Deserto, già, perché le razze stanziali che popolavano quella zona erano numerose come tribù, solo che non ne possedevano la rispettiva disciplina.
Fu proprio in quel mentre, dove mi sentivo spappolato fra la routine di una sequenza già vissuta prima che succedesse, e la dannata ribellione del mio senso estetico a tutto schifo e quel via vai di follia senza meta e di formiche agitate, che un moto reazionario crebbe in un momento dentro di me per farmi esplodere. Dovevo sostituirmi a quella realtà che stavo subendo passivamente. La portiera scattò e fui pronto a scendere. Mi rifugiai nel mio sguardo che adesso voleva ignorare tutto e fuggire. Fissavo l' albero e quel cancello chiuso. Dentro, un giardino abbandonato dove topi e forse serpenti potevano gozzovigliare a piacimento, il tutto a 4 metri dall' asfalto e a 10 dagli stalli della stazione dei pullman. Guardavo tutto nei minimi particolari, ferocemente mi incaponivo sulle scritte ' amore sul cancello e sulle celtiche e falci e martello. Le oscenità che mi stavano riempiendo gli occhi erano comunque riuscite a distogliermi da quell' oblio più vergognoso dentro il quale avevo rischiato di precipitare prima. Avevo dimenticato l' esistenza del chiosco, e la stessa esistenza del "nasone". Non volevo vedere nulla, tant' e' che nell' attesa volsi lo sguardo verso la diramazione della tangenziale e ne raccolsi anche qualche foto. Pensai: "sopra il cemento vedo il cielo", dunque val pur la pena del cemento negli occhi se serve ad osservare il cielo.
Distante da tutto il resto, solo dopo qualche lungo minuto riuscii a dirigere lo sguardo e a ritornare sul terreno. Fu in quel momento che una coppia di persone anziane stava attraversando. Vestiti lisi ed un' età avanzata che non nascondeva acciacchi. Il passo di lui che claudicante si aggrappava a lei, e lei lo sorreggeva. Una giacca e un pantalone largo su delle "Superga" ai piedi. Lei rigorosa. Ce la faceva più di lui, nella sua capigliatura attenta ed ordinata l' ancora viva voglia di sentirsi donna. Isolavo nell' immediato il concetto di dignità e tutto l' amore di una vita esploso in quel tenero gesto. Li fissavo da lontano, mentre piano stavano arrivando. Rimasto immobile per degli istanti lunghi avevo il fuoco nel mio cuore. Grazie a loro, acceso, ora ero vivo, e parte di quel sogno che vivevano per una intera vita. Null' altro in quegli attimi fu più importante. Il brutto di quella scena era anacronistico al cospetto di quella sagoma di un individuo in due dopo tutti quegli anni. Via la stazione, strappata dal terreno, via gli edifici, volati verso il cielo col cemento, l' asfalto e sospesa, la camminata delle due persone anziane.
Chissà se qualcuno li ascolta ancora e li sostiene, così come fa lei con lui nel suo problema. Io debbo dire grazie a questo amore. Un briciolo di intensità nel piatto mare stanco di quella routine voluta per ammazzarci i desideri. In un solo momento tutto vola via e quello che resta e' immensità di un amore da insegnare, Maestri.



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03/05/16

Cimbali e musiche di neve.




         Lunghe, lunghissime ore sotto la tormenta. Cercava di mantenersi caldo come possibile, ma il vento sferzava fino ad entrargli attraverso e non capiva più dove iniziasse il gelo della notte e dove finissero le scosse provocate da quei brividi che lo scuotevano oramai in modo costante. Appoggiato ad un tronco, l' ennesimo tronco, avanzava lasciando solchi profondi nella neve fresca, mentre le tracce lontane scomparivano sotto nuovi cristalli che via via ne cancellavano l' impronta e riportavano uniformità a tutta la scena come s' egli non fosse mai passato prima. Sentiva la folta barba e le ciglia gelare e sciogliersi contemporaneamente. Il calore della cute aggrediva scivolando via un sudore copioso che serrava gli occhi. Tutto alla vista appariva più sottile e l' orizzonte si appiattiva in un 16:9 che talune volte doveva strofinare e poi tergere con l' avambraccio affinché si riuscisse ancora vedere e per non farlo mutare in ghiaccio grazie a quel feroce vento.
Annientate e ora distanti tutte le sue velleità di poter giungere alla meta, vagava come un pendolo attraverso il tempo cadenzando il movimento per ridurne al minimo la spesa ed allo stesso tempo ottimizzarne il risultato. Si era sporto già un paio di volte in alcune radure che gli erano sembrate ottimali per fermarsi a riposare, ma prima una grotta dalla quale usciva un puzzo di carogna e di primordi lo aveva fatto desistere, poi quella sua assoluta convinzione che potesse disturbare il letargo di un orso bruno della montagna, gli aveva consentito di raschiare nel fondo delle sue volontà, adesso fuse con le paure degli spettri e delle sagome immense di quegli assassini feroci che stavano dormendo. L' incedere claudicante disegnava una traiettoria sagomata, mentre le impronte stavano pian piano cedendo il passo a solchi dolci trascinati e stanchi. I rami e la vegetazione rigida grattavano e adesso incominciavano a graffiare, ma anche lo stesso sangue sulle lacere striature del viso coagulava raggelandosi immediatamente ed andando solo a mutare in arancio il colore percepito del sudore al nuovo passaggio dell' avambraccio pronto a detergere ed asciugare.
Violate ed immobili le specie animali di quel buio solo a scatti per la Luna luminoso. Una Luna che di tanto in tanto trasformava in cenere una notte di tenebra dove la neve stava precipitando come frolla su altra frolla e, ove possibile, trasformava il nero degli alberi in un nero ancor più deciso, sotto la mescola di vento e di cristalli nuovi che si andavano depositando tutti intorno. Violacea tormenta ed un suono che piano si diffonde, prima sordo poi sempre più massiccio. Violacee le cime degli alberi funestate dalla rabbia di una neve esplosa e dalle traiettorie delineate dal fruscio fortissimo del vento. Di la dai fitti tronchi si apre una vallata concava ed un improvvisa Luna che si apre fra le nuvole per un rapido istante mostra lumi di una cima che ora appare la. Una mandria di bisonti che in discesa attaccano sembra cacciare via anche il vento. Soltanto quella bassa nebbia fitta e quella neve restano come signore incaute lì per la serata. D' un tratto un costone cede e vede tutto. Più nulla, poi un' altra mandria di bisonti, ora più numerosa. Cavalcano l' intera valle che ho di fronte e temo di affacciarmi. L' immagine di una valanga che precipita l' abisso accarezzandolo per poi trafiggerlo velocemente appare. Solo le polveri di neve mossa giungono ad esplodere fino al confine della macchia scura.
Salvo, lui pensa. Salvo. In un cammino di complesse e già incrostate avversità il passaggio di valanga impatta nel mio tempo più che nello spazio. Vuol dire aspetta e fermati per riposare credo, o per lo meno questo e' il suo messaggio che ricevo. Alberi e salvezza, valle e tremolio piatto di una neve fresca caduta come l' iride di una vetta che dilata. Scioglie ancora il volto fra le lacerazioni ed il sudore, ma adesso scavo. Dal ghiaccio fuggire e trovando il suo giaciglio dentro al ghiaccio. Scava, toglie i guanti e con le mani. Butta via neve ed altra ancora, fino a non sentirne più i residui sulle punte delle dita. Quell' avambraccio che prima detergeva adesso spala, e vuota. Quel buco adesso accoglie, appena nella valle e fra quegli alberi protetto. Poca luce e l' ansimare spinto di un uomo divenuto animale che ricerca nel respiro anche il suo stesso scopo. Compatta e ricurva ora e' l' ellisse che lo accoglie, come una enorme bolla di sapone appare, fra quel bianco friabile e battuto della neve fresca e la salvezza di un nuovo sole che dovrà poi sorgere. In tutto ciò quel lago di umanità che tiene addosso che lo ammala lento, fra quelle sottili linee degli occhi che al risveglio mostreranno un' altra storia di quella sola notte dove la valanga ha ucciso e travolto ma lo ha pure risparmiato.


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