29/01/16

Attimi di plastica.




          A saperlo raccontare o per la verità a trovarcisi sciolto dentro, l' impressione che deriva e' quella di essere seduto dentro l' abitacolo così come son gli altri, rispondendo a dei dettami algebrici e totalmente soggiogati da quella lunga fila di auto che ci segue e ci precede.
Osservo i volti, o sarebbe meglio dire "provo ad osservarli" e vedo espressioni spente, figlie di una rassegnazione oramai accentratrice, energicamente vittoriosa, e ai volti si sostituiscono le cupe nubi che annunciano violente piogge. Non so se come lacrime, e nemmeno se copiose od accennate, ma svilisce l' espressione e quello sguardo tende quasi a scomparire, perdendosi dentro una nebbia strana dove bocca e il volto tutto sembrano affondare.
E le persone dovrebbero perfino trovare il tempo di innamorarsi in tutto questo marasma? Amare cosa...? Dipende tutto da quello che si riesce a vedere, e dipende soprattutto da quello che si può far trapelare. Che coraggio! Ma con quale coraggio...? Siamo una società oramai allo sbando! Cumuli di macchine, relazioni di plastica, marmo. Siamo vittime di noi stessi ed assoluti giocattoli della velocità che abbiamo costruito tutta intorno e che ci ha pure sorpassato. Ci sono vento, alberi che cadono, palazzi che cadono. Una società allo sbando!
 Non c' e' più tempo per viverla questa "non vita", non c' e' più tempo per assaggiarla, per goderne, per degustarla, e nemmeno, se si volesse, per vomitarla.
L' elemento più rivoluzionario in questa serata e' una bicicletta, ed un uomo anziano che pedala, vicino al ponte della Musica, mentre tutti noi viviamo di momenti spezzettati, frammenti di identità velate che di tanto in tanto affiorano per poi tornare all' eremo del nulla, ciascuno nella propria auto, aspettando immobili che la noiosa fila di lampioni termini giù in fondo.
E strana sorte, a farmi compagnia, di fianco a me, un bus che sta obbedendo a queste stesse regole. Come un elastico va avanti e poi si ferma, come lo stesso elastico poi avanzo io, per poi lasciarmi accanto quel cartone incorniciato con la sua pubblicità. Ironico il suo numero che quasi lascia intendere pensieri sconci. Sarà un caso, ma e' proprio il numero sessantanove che rallenta e che mi fa pensare che anche questa sera farò tardi.
Vetture impilate, fari che si inseguono ed asfalto che riflette. In tutto questo vedo cumuli di piatta routine, spazzate via le riflessioni argute mi abbandono al senso più noioso che possiedo. Anche l' obelisco del CONI, che statico si affaccia alla sinistra, sembra un qualcosa di vetusto rigettato in questa nebulosa scena che sa di fine. Ci vedo dentro un che di post-apocalittico, come se dell' edera, dei rampicanti lo avvolgessero trasparenti in mezzo a questo festival di inutili clacson e di serpenti di metallo che si avvinghiano con gli individui dentro.
Questi tipici con le luci accese, quasi antiche, quasi stanche, quasi muffe. Come l' asfalto e i dossi, saltano e sopra il salto siamo qui ad improvvisare sopra le radici di questi alberi malati.
Malati come siamo noi, giorno dopo giorno, malati come il nostro tempo: passiamo attraverso, anche attraverso noi stessi. Passiamo soltanto attraverso.
Di tanto in tanto poi lo sguardo divaga e si perde in questo blu offuscato, oltre quel velo color rame che lo altera e lo intacca. Quasi a fuggire si rivolge verso l' alto e allora luci intermittenti di un aereo in transito per pochi istanti mi allontanano da tutto questo, ma sono solo pochi attimi e torno immerso in questo fango, catapultato nuovamente in questo fango di anime, dove non c' e' niente, se non quel marmo e quella voglia di scappare via. Follia, clacson, rumore: follia, e' solo follia! Io sono spinto a rallentare per fare in modo che vada tutto via.



Roberto De Sanctis - All Rights Reserved  

27/01/16

Una sagoma che affiora.



         
            Un velo scende sul viso di una donna mentre l' incanto di una sagoma che mi abbandona in un ricordo si riscalda. Il suo profilo mi accarezza e poi mi sferra un gran ceffone a scuotere il pensiero mio che in quell' istante non la infanga. Lecite vogliose voluttà che quasi offendono quell' eterea idea di lei che nel mio corpo si diffonde con calore e fiato, mentre ansimi e l' immagine di quella sagoma mi sciolgono la gola e il petto impedendomi di respirare nello stesso modo in cui vorrei. Crepita e sbatte fra i frammenti di un complesso nebuloso archivio di intenzioni mentre schiumosa e bella appare, sfumata fra le intensità di un ghigno e fra le forme di una ninfa che si immerge. Brusii inconsueti fra il fogliame, vetuste idee si arrampicano come dei rami d' edera sul mio stomaco e dietro la mia schiena. Se solo io riuscissi ad omaggiare quella idea con il consueto volgere di polveri d' amore e cospargessi di una nuova furia il desiderio di tenerla a me, dentro quel fiume magmatico che e' in quell' istante il mio tacere e nell' immensa interminabile colata di pensieri, allora riuscirei a venirne fuori come fa la resina da un albero, e dunque tornerei a comprenderla attraverso i fumi di una immagine sfocata mescolati ad una nebbia che mi appaga.
Corpi. Come colpe e come vivide irresponsabili emozioni. Suscita tremori e ascolta brucando fra le fornaci un' erba fragile che spezza in un terreno che zampilla e cuoce lento. Anime e quel velo verso il vento, dannata immagine che scorre via danzando fra le cupole di un rigoroso altare. Mescola e appassisce risorgendo e rinfrancandosi dopo le steppe aride di una voglia che taciuta si allontana. Forza la chiave e serra, fra le livide esperienze di un trascorso che silente si indottrina. Nulla può, ne nulla possiede, se non quel vago senso di un' eternità sopita in un incendio che dura pochi istanti e che nel fumo nebbia sfuma. Saette e braci, corpi che si incontrano, mani si adattano sfiorando e una ricerca nuova incontra i suoi confini dentro il velo che di tanto in tanto esplode rigonfiandosi. Mulini ed acqua filtrata, grano e distese di genziana. Appaiono silenti e docili dentro quella selvaggia verità che scema. Disperde in vari incavi le liquide schermaglie di un amante che si lascia soggiogare, mentre nel tempo e sulle acque si riflette il cane ammansito che distoglie da quell' assonanza ricercata agli angoli e che come la solita nota di un diapason distribuisce il senso in cerchi concentrici che si fanno più ampi fino a disperdersi nel circolo piatto di un pensiero che ritorna.
Non c' e' più spazio, ne tollero altre densità di quell' idea che lascio andare. E arrotolo pellicole come se fosse un film, scegliendo fra le immagini e il trascorso quel che più caratterizza quanto andato. Filtro come il sole arriva in raggi e taglia, lasciando tracce e in quel pulviscolo abbandono le mie tiepide pressioni, imprimendo a quella lucida follia soltanto i colpi per poter vagliare ancora quell' idea del suo profilo che accarezza. Sciami di inquietudine e brividi, valichi sospesi fra lo stomaco e le gambe, sogni vividi che sembrano impedire passi che non siano su cimmi e piovaschi reiterati. Dinamiche di vita laterale che io cerco di imparare, abbandonandomi ad un taglio che comprenda per evitare quello scontro che ferisce. Ma io non riesco, e quel velo che nasconde mi seduce nell' esatta maniera di quando io lo vidi apparire al primo istante. Polveri di una inconsueta voglia, pertiche che sotto un mare salgono a sorreggere ninfee, edera che avvolta non distoglie ne nasconde, e quella grotta fresca ed umida dove racchiudo scrigni e carillon con musica che dondola ed ovatta che impedisce di cadere. Amaca legata ad incessanti uscite, paracaduti appena dissolti fra gli istanti che vorrei impedire, legature di libri sollevate fra chili di carte e inchiostro e una manualità che tende a scomparire fra le nebbie della sagoma di un volto.



Roberto De Sanctis - All Rights Reserved








22/01/16

Il Generale Verità.




      Sono scollate le parti del viso in grado di offrire anche solo un sorriso. Esse riflettono spirito e dubbi, ma resta celato il dilemma su quel generale chiamato Verità. Una punta di amaro talvolta le inquina e nebulosa le invade. Attento rimane quel ghigno, e quel vuoto interiore le affoga e si perde in un pugno. Frammenti, come lamine di ossa intente a lacerare tessuto, le rughe, testimoni di un tempo trascorso e firma di un passato che affiora e come bilancia delle espressioni soppesa. Comprendere ciò che e' di fronte, se appare e se e' Vero oppure e' diffusa ironia che si avvolge sulle interpretazioni incomplete raccolte. Frullano come la pasta di un frutto, dilaniato da quelle pale, e spezzettato, e scisso. Resta una densa polpa, la solita essenza, che sfigura la forma ma che del contenuto estrae solamente l' assoluto. Raccoglie in maniera avventata, proteggendosi soltanto con il sipario di una tovaglia di plastica da cucina, così come il vento spira e gli occhi lacrimano, per poi asciugare l' umido sulle gote e su quel tavolo raccogliere con un cucchiaio la polpa caduta. Passa lo straccio, come tenue nuovo vigore, rilassandosi adagio su quei fiori stampati mentre le oscenità di un Falso precipitano nell' immondizia insieme alla carta o altra acqua che sgorga e che passa a pulire la pezza. Sabbie sminuzzate come quelle lamine continuano l' opera. Laceri brandelli di cute dentro un vento che non si placa. Rimane al caldo di una scena compressa, dove pressioni laterali alimentano altre spire e dove altri turbinii di menzogna circolano concentrici fino a rilasciare limacciosa umidità di vergogna e inconsapevoli laidi tentativi di ferire gli altri. Scie, nient' altro che scie, in un microcosmo che e' l' individuo emergono dolenti ellissi di pensieri andati, da polverose Verità scoperte e chiare, a liquido frenetico di umido che come gocciole si poggia sulle false convinzioni. Amidi sciacquati e cristalli di nera pece si attaccano fino a divenirne protuberanze che non vogliono sparire e andare via. Un bacino di raccolta sporca ove concentra torbido sapere, un recipiente scalmanato e urlante dove riaffiorano come ninfee le plastiche recuperate. Sindromi e malanni fra le crepe di un tessuto antico e fra le rughe, come se una indecente nuova costruzione ora impedisse di osservarne il salubre soffitto. Emergere per non restare a mollo, correggersi per arrivare ad una comprensione nitida, dove fuscelli ed espressioni false e dilaganti si diffondono tutto all' intorno, ma dove un nucleo caldo scuote e lo sigilla. Ove la cute crepita per eruttare e trasportare via quel limaccioso fango, altre tuonanti essenze soggiungono a supporto e da scoperta affiorano fino a che non se ne celebri quel ritrovato inganno. Sorrisi ed interessi che si mescolano, sviando da quei tic nervosi e menzogneri che non riescono a celare le effettive intenzioni. Scoramento? Affatto. Come un piantone osserva il perimetro di un edificio e lo sorveglia, così nel fango di routine sbagliata e' in grado di capire. Nomadi in cerca di un soggetto cui attaccarsi, menti perse cosparse di copiosa boria fra le natiche ed agenti sotto traccia. Via da quella vita, anche la vostra. Patetiche insolenti prove per riuscire ad allagare di svilente mediocrità anche chi non vuole appoggiarsi e chi già vede. Lasciateli morire dentro, fra le muffe di quei fallimenti alti 2000 piani. Niente ascensori per chi spala e spera, per chi mendica attenzioni e che viscidamente sfiora. Altre cose da dire francamente non ne pensa, se non tutto il già detto nel rispetto di uno dei quattro Comandanti: il Generale Verità.


Roberto De Sanctis - All Rights Reserved

13/01/16

Meltin Pot.



         Una porta di alcuni minuti spalancata su quello che sarà il domani. Dove la fredda schiena in legno di un locale cinese fa da cornice ad un assolo di un ragazzo alla cassa mentre batte i conti di un asporto. Mi ha detto che potevo sedere mentre stava prendendo il mio ordine. -Gentile- ho pensato, -ma anche piuttosto risoluto e indifferente.-
Mi guardo intorno, e quella cascata di legno sembra inghiottirmi. Il soffitto comprime i tavoli e gli ospiti, le sedie e le classiche lanterne che dal soffitto scendono giù per far credere che sia Pechino.
C' e' un uomo calvo che aspetta il suo sushi. So che andrà via con la cena prima di me: lui mangia il crudo, mentre io non mi fido. Lo guardo mentre aspetto il mio turno, batte le palpebre dei suoi occhi azzurri rossi in modo veloce. Forse e' stanchezza, o magari e' ragionata follia, ma un sorriso isterico gli si dipinge sul volto, credo inconsapevolmente. Chissà a cosa pensa... ma resta lì, in piedi, impedendo il passaggio di quell' esile ragazza orientale che sta servendo ai tavoli.
Nell' altra sala, quella che prosegue ed oltrepassa la cassa, in un tavolo in fondo un uomo, che sembra il padrone. Uscito da un film sulla vecchia Shanghai degli anni Settanta, ho la sensazione di catapultarmi, scrutandolo, in una pellicola antica, di quelle prime a colori, dove le sagome ed i movimenti si potevano percepire per bene, ma il contrasto con la scena veniva terribile. E' seduto, stanco, a fumare, e subito quella sua azione mi porta a cercare il cartello che credo di aver visto prima. Pochi istanti, poi torno a lui. Indossa solo una canottiera, ha un canovaccio bianco che gli scende dal trapezio ed interrompe la linea della maglia, il pantalone sembra di quelli da personale ospedaliero, e per la verità anche gli zoccoli che indossa mi fanno pensare alla stessa cosa. Resosi conto che lo sto osservando cicca la sigaretta nel posacenere grattandone la testa del tabacco, evidentemente per conservarla e poterla riaccendere più tardi. Non che mi interessi del fatto che stia fumando, come cliente, ma fumare nei locali non e' legale. Rifletto comunque, più che su questo, sulla incredibile parsimonia e sull' assoluta abnegazione nel lavoro di questi minuti esseri che sembrano vivere la loro intera vita dentro i vapori di una pentola a pressione.
D' un tratto la porta del locale si apre, non posso non volgere uno sguardo curioso a chi arriva. Entra un giovane che indossa un casco di quelli a metà. Ha lineamenti italiani, ma e' minuto anch' egli, asciutto come fosse cinese. Evidentemente fanno anche consegne a domicilio. Mi alzo dalla sedia mentre una nuova signora giunge dalla cucina con delle scatole nere, l' intento e' di prendere un biglietto da visita per poter usufruire del servizio la prossima volta. Sotto l' arco a sinistra la scritta c' e': -vietato fumare-, e continua...-i trasgressori saranno puniti...-, adesso sono io a sorridere, mentre quell' uomo rimasto in piedi tutto il tempo sta prendendo le sue buste con il sushi, il sashimi e il tempura. Prendo il mio biglietto mentre paga il conto e gli occhi continuano a battere velocemente. Mi defilo per non essere d' impaccio, mentre la ragazza che serve ai tavoli sta passando con un piatto di riso fumante, e mi seggo dov' ero prima che mi alzassi. La signora saluta, e porgendogli la busta con le sue delizie giapponesi acquistate in un ristorante cinese, gli chiede se vuole wasabi. Egli, estraendo entrambe le mani dalle tasche dei jeans, fa cenno di si con la testa, e la conferma arriva dalla sua flebile voce. Il ragazzo della cassa apre una scatola bianca, prende delle piccole bustine sigillate come caramelle e ne infila tre o quattro fra le scatole nere che porta via. Si conoscono, la conversazione e' amichevole ma un pò distaccata, forse perché lo vogliono le loro abitudini, quelle orientali, o magari perché entrambi hanno semplicemente altre cose a cui dover pensare. Fatto sta, che i convenevoli terminano con i saluti di rito e con i doliti due sorrisi di plastica che si convengono alle maschere indossate su cui spesso mi trovo a riflettere. Chiusa la porta riaffaccia il ragazzo che fa le consegne, ha tolto l' elmetto e il suo volto tradisce una giovane età che forse non arriva ai 16 anni. E' diretto verso il bagno, lo deduco dalla scritta, solita, bianca e rossa -toilette-. La porta si perde fra la parete cadente che opprime, al tavolo a fianco una coppia di ragazzi sudamericani si fanno la corte in maniera elegante e se vogliamo anche pudica. Lui, ceruleo di carnagione, alla maniera dei rappers indossa un' orribile berretto dell' a.s.Roma, con la visiera piatta e girata verso il lato. Ha addosso, seduto al tavolo, un giubbotto con cappello con pelliccia. La dentro ci saranno almeno ventidue, venticinque gradi, e la cucina con i suoi fornelli dai quali arrivano i classici odori delle preparazioni, fa abbondantemente il suo. Credo che i centri termoregolatori di questo ragazzo siano partiti, comunque non suda. Lei, carina, ha un "visetto" da Incas. Con il capo si appoggia su quel ragazzo e si sussurrano parole carine, tant' e' che entrambi sorridono per poi tornare seri e ridere ancora. La scena mi fa pensare al mio primo vero amore, quando con Alessia scherzavamo e facevamo finta di arrabbiarci l' uno con l' altra per poi tornare a coccolarsi nell' istante successivo. Schermaglie di primo periodo, bello agli occhi miei e del mio ricordo, osservare la spensieratezza di due fanciulli non divenuti ancora uomini che si vogliono un bene -pulito-. Arriverà anche il tempo delle delusioni e dei problemi, ma quegli istanti resteranno sigillati in entrambi per il resto dei loro giorni se saranno in grado di raccoglierli.
La musica corre avanti. Una radio technocinese ci allieta l' attesa con un rave del quale farei volentieri a meno, mentre ecco dietro il separè, alzarsi un' altra coppia che non avevo notato e lei, donna moderna, dirigersi verso la cassa per pagare il conto. Lui aspetta al tavolo che i tasti della cassa tornino a suonare, e poi, quasi insofferente, fa un cenno al padrone di casa per andare via. Lei, la donna, cordialmente saluta e, evidentemente cliente, giustifica il loro veloce andare via perché il suo uomo non si sente molto bene. In fondo alla sala, spalle al muro e seduto da solo, c' e' un indiano, forse un bangla, o comunque di quelle zone lì, che assiste alla scena. Per un momento i due sguardi si incrociano e lui lo distoglie subito e continua a scrutare tutta la scena dal suo punto di vista, così faccio io, tornando a quei ragazzi giovani, che a differenza della coppia che sta varcando la soglia per uscire, rimane lì fin quando lui non s' alza per andare a pagare il conto del loro tavolo. Indossa quel cappello agghiacciante, contravvenendo, peraltro, anche alle più basilari regole della buona educazione, ha il cappotto anche se fa caldo, però le scarpe sono decenti, un pò meno quei pantaloni jeans a vita bassa che gli sciolgono le natiche dentro due tasche diagonali messe per bellezza e che non potrebbero ospitare nemmeno un documento di identità tanto sono corte.
Fa la cosa giusta. Paga il consumato per lui e per la sua ragazza. Lei, pudica come all' inizio, lo attende al tavolo, quasi religiosamente. Vedendolo tornare gli stampa un sorriso di quelli che quando sei innamorato ti fanno sciogliere. Lui alza un braccio e lei vi si infila sotto, la cinge, e salutando ancora vanno via: belli, abbigliamento a parte. A questo punto i minuti di attesa si fanno sentire, ed in alcuni atteggiamenti comincio a far sentire la mia volontà di andare a casa con quanto mi stanno preparando. Chiedo bacchette, le famose "chopsticks", per portarmi avanti col lavoro, ma ecco che un ragazzo scuro entra chiedendo se la vettura in doppia fila e' mia. Neanche a dirlo, e' così. Mi precipito fuori per lo spazio di un minuto, il tempo di entrare ed accendere la vettura e mi sposto comodamente, anche se rifletto sul fatto che sarebbe potuto passare tranquillamente (evidentemente un altro insicuro per le strade dell' urbe) per andare ad occupare lo spazio di vetture andate via. Il ragazzo ringrazia ed io con un cenno della mano ricambio il suo saluto. Sto rientrando e quel "ding" della porta che si apre suona come la campana dell' ultima ora. Mi reco alla casa, anch' io fiducioso di riuscire a sentire il concerto dei tasti di cassa. -Il conquibus- chiedo, accorgendomi subito di aver fatto una gaffe. Conquibus, dal latino cum quibus: "con quali". Sono ad attendere in un ristorante cinese che fa anche giapponese del cibo. Ho passato questi miei venti minuti osservando, nell' ordine: dei cinesi minuti che servono piatti ai tavoli, seggono fumando sigarette, e digitano tasti sulla cassa. Ai tavoli ho visto una coppia di sudamericani amoreggiare in maniera educata mentre una coppia di italiani andava via di corsa perché lui non si sentiva molto bene. Ho incrociato lo sguardo di un indiano o pakistano o cos' altro mentre lui stava osservando al pari mio queste pareti che più che di un locale sembravano degli interni di una piramide. Nel mentre ho visto un ragazzo italiano che aveva la corporatura di un cinese, in più, la persona che aveva acquistato giapponese, non aveva smesso un istante di battere le ciglia e muoversi rimanendo in piedi tutto il tempo con applicato un sorriso da ebete. Ed io vado a chiedere il conto in Latino?
Mi sono salvato da questo loop col profumo degli involtini primavera, quell' orribile umido di condensa che avvolge i recipienti di alluminio e la richiesta di salse per mangiare. Sul display della cassa magicamente appare il "conquibus". Il tempo di pagare e andare via, pensando che non sia successo. Ma e' successo! Infatti rispondo che non voglio l' agrodolce ma soia e piccante si.




Roberto De Sanctis - All Rights Reserved

08/01/16

Le cose.




          Mentre il rollio del tamburo del trascorso echeggia ancora ed ossessivo il suo suono si diffonde, prendo a doppie mani i miei abiti di un tempo e li rivesto, deciso a ripristinare cose da troppo tempo assenti in me e responsabilmente, quasi colpevolmente, allontanate fino ad ignorarle per cospargermi di idee e convincermi che non le avessi più. Non esistono carati per misurarne il grado di purezza. Esse blindate in uno scrigno polveroso si riaccendono quasi fossero vive e dinamiche esse stesse.
Convenevoli ed attenzioni fugaci non trovano spazio, e' pura essenza ed assoluta risoluta intensità. Volgo lo sguardo al destino forte del mio vissuto, dove in un angolo sono riposti maceri momenti ed opachi scenari che quasi persi adesso riaffiorano e mi suscitano turbe emotive come se li stessi rivivendo mentre l' inchiostro corre sulla carta.
Mi tuffo dentro la mia verità più profonda, navigandone le ragionevoli insicurezze e scandagliando i tetri fondali. In un' apnea emotiva mi fermo ad ascoltare le correnti, e per un tratto ho la sensazione di avere tutto il peso di quel mare sopra le mie spalle, ma poi da una cavità più piccola e nascosta, con delle piccole bolle che salgono verso la superficie, posso scorgere un passaggio che dai celati sistemi mostra il complesso intricato sentiero che porta alle ovvietà. Accetto continuamente quella sfida, e d' un tratto, quel peso sulle spalle si fa più lieve perché condiviso. Non ho più la necessità di scavare da solo, di esplorare cercando risposte, mi scrollo di dosso il peso di una responsabilità collettiva, il senso di frustrazione svanisce perché il limite della comprensione e' oramai giunto. E' proprio quella la nota che timbra il varco diretto alla reale ricerca, a quel confronto fra me e me stesso scevro da qualsiasi fondamento preconcetto, in un piccolo anfratto del fondale dove non ha più senso nemmeno preoccuparsi di essere capiti.
Ed ancora quel tamburo, la cui intensità ed il cui suono aumenta, subacqueo, come un diapason disperde le sue onde dentro questo liquido che adesso mi delimita. Danza l' acqua, e l' elemento che comprime il mio confine ora lo ascolto e nitida si fa la scena, mentre un ondulato inciampo fra i coralli taglienti e i fallimenti, ferisce le mie mani diffondendo e mescolando quel mio sangue all' accogliente mare.
Pori e vernici cosparse che impediscono di respirare. Mali affari ed incubi laceri fra le vesti di un tessuto umido che appesantisce. In tutto, delle frenesie di un' indole che vuole e cerca la scoperta fra le righe di un lessico elegante e falsamente ingenuo. Tremule noiose frasi fra gli alberghi di una scena amara, dove affacciano complete delusioni e mistiche incongruenze fra i comportamenti e le semplici decisioni. In tutto ciò le stelle, e quell' avido panorama di bellezza che si offre a chi ne resta offeso. Come tanti candidi granelli di sabbia cosparsi fra lagune nere, riflettono, ridondando ed affogandone il rullio nel suo stesso tamburo. Come sciami di insetti sospesi ed immobili, quasi una fotografia di quell' istante in cui per i miei occhi quel tutto diviene importante se non fondamentale, preesistente.
E' una splendida testimonianza di un soffitto infinito fra le varie sagome di una bellezza celata. Affiorano per poi allontanarsi via nel cosmo come fossero tante promesse di una quiete ambita. Gocciolano come pioggia e talune volte illuminano come fossero dannate nuove idee. Bontà sua, il tamburo, in quell' esatto istante smette di rullare, e in quell' esatto istante mi convinco che ho già tutto in quelle fondamenta che somigliano ad altre, nuove cose.



Roberto De Sanctis - All Rights Reserved

03/01/16

Bolle.




           Se chiudo gli occhi sono lì di nuovo. In tutto quel rumore e quella gente, cibandomi di liquidi e di suoni fra le facce accese di quel largo inquieto vivere partecipando al fumo. E tremolii e altri fremiti che corrono, riflettendo fra le schiume asciutte di una sensazione ormai lontana, si aggrappa a quella bolla che ora esplode sommergendomi di acqua gassata. Mi getta sul terreno e fradicio comincio a ridere di quel che accade, mentre quel nuovo brivido mi avvolge su di un pavimento frizzante che si va placando.
Aspartame e surrogati di dolcezza vi diffondono racconti e contenuti, che da assenti e muti affiorano come germogli in una prateria di nulla e di abbandono. Veloci eliche tagliano il vento per recidere finanche l' ultimo dei miei solleciti di nuove regole dettate. Ingenuamente lascio al fato il compito di disporre tutti i rettangoli ed i cerchi delle mie vicissitudini non governandone nemmeno il muto alito che si diffonde da quell' esile punta di gomma che continua a volteggiare.
Come le rondini annunciano il clima che cambia così un mulino raccoglie e fa tuffare la stessa acqua nello stesso identico ruscello. Condire il clima con la nuova voglia può essere davvero un aspetto nuovo per esplorare, un vertice o un' ellisse dentro alla quale raccogliere altra linfa per avvolgerci gli intenti e ragionare del trascorso con una limpida attenzione che non bagni nuovamente. Bilancia effimera di ciò che e' andato via rimane sul livello del ruscello che attraversa, mentre un camino acceso scalda e tutto il fumo che era dentro manda via dal suo comignolo di ceneri e di pece.
Lastre di ardesia lucida quasi rissose si sovrappongono a quell' altra pietra umida che e' lunga quarant' anni. Zoccoli fradici lasciati all' esterno servono a calpestare le foglie secche che prima l' acqua e poi la neve macerano sul pavimento del terreno. Ovvietà e le ratio rigorose corrono altrove per dedicarsi a quella parte di novità esplorata quando la neve scioglie. Tutto resta lì come se fosse altra pietra e massi di frane antiche sullo sfondo ci ricordano che tutto quel che e' andato in realtà osserva, come se il filo lungo delle nostre giornate fosse un ciondolo che attraversa una liscia catena lucente, come se una traiettoria a spiale riavvolgesse il canto di una ugola dolce riconvertendo l' aspartame in esplosioni di fiocchi di zucchero che dall' Eridano si dissolvono in coltri di nebbia fitta lungo le piane di una piatta zona lacustre.
Piombo sulla schiena e dei fardelli nuovi pronti a sovraccaricare questa grave soma. Impervie salite arrampicate con delle scarpe di panno avvolto a delle corde. La terra che come polvere si attacca alla gola ed impedisce di respirare senza cacciare dell' altro calore che fiata via. Brusii lontani e tutta quella gente e quei rumori si distaccano da quel che adesso vivo a me. Quei suoni come corde di arpa pizzicate mi abbandonano lasciandomi il ricordo di quello che fu in un eco anch' esso andato via. Rimane di me una sagoma stanca che si raccoglie fra le lacere virtù di un altro senno e quelle palpebre socchiuse che ora vogliono dimenticare per ritrovarsi fra i nuovi impeti di una cascata che ci avvolge in una bolla, quella bolla, che resta li a proteggerci di acqua gassata. Bolle.


Roberto De Sanctis - All Rights Reserved

     

02/01/16

Verità celata.




         Castelli di conchiglie e ciondoli per delle torri resistenti avvolgono i pensieri di un regnante chiuso dentro il tempo. Istanti blindati da abili maniscalchi e legnami misti a spesso cristallo sono grandi come ponti levatoi, e separano da quel ruscello infido che nella parte sottostante melmoso e quasi finto, affiora. Crepitii di strane cortecce di tanto in tanto spezzano quella clessidra immobile, ed e' senza sabbia che si vede attraversare la sottile porta. Dentro la fessura cade pioggia come lacrime scivolate via da un banale suono di flauto che commuove.
Un tonfo unico, nel lento incedere di una marcia di ferraglie ed individui. L' albero della vita cede sotto il passo della finta evoluzione fino a fare regredire la colonna intera ed a fermarsi per preparare il bivacco e per la notte. Violato l' immenso, tace fino a quelle grotte umide dove le anime tramandano dalla coscienza epidermiche sensazioni da elaborare. Esse, finemente costruite sotto quella fitta selva di pensieri confusi, sono lì che ci raccontano la finzione trovata nell' ignavo e la menzogna di taluni sguardi. E' tutto dentro l' alveo di purea che così fragile dissolve e che si asciuga per assomigliare quanto più possibile a qualcosa che non e'.
Ceneri e lapidi, come il suo palcoscenico ha la sua fila di commedianti e accoglie la recitazione di maschere silenti, così la fitta boscaglia ciondola gli aghi della selva per avvolgere fra se ed il resto quei torrioni edificati sulla riflessione, dove il padrone del fittizio inconosciuto regno si dilata fra le fronde e una promessa di tutto ciò che e' stato e che dovrà venire.
Qual rumore ha il vento? Quale suono mentre affronta e offende i suoi possedimenti. L' ovvio che si scontra con la coda di quell' esistenza, che s' anche rimanesse sola canterebbe come ninfa in uno stagno.
"Avvolgimi allora", sembra dire irriverente, "a quel calore fatuo che io credo di provare. E brucia! Ardi quanto di me rimane nella parte oscura, celata dentro quelle anemoni di tela trasparente."
E sciami di luci, e rossore dei vespri, spirali di concentriche chimere adesso cantano il vento. E la dolce danza di una brezza fa scemare finzioni accademiche e rigorose espressioni cangianti sulla base di ciò che si conviene. Tutto si sgretola al cospetto di quell' alito sublime, sfumature di colore rappresentano e lo vedono passare sulle sagome quasi le definisse accarezzandole.
Osservo, mentre dalla parete le conchiglie luccicano insieme, ed il rumore delle fronde al suo passaggio si unisce in un concerto fino a coglierne quel frutto puro che e' il rinnovo. La casta del regnante si fregia di un titolo che in realtà appartiene alla tutta la Natura delle cose. Come coleotteri e calabroni adesso tutti i frutti del male vanno disseminandosi sul terreno. Appaiono schiacciati, caduti e putrefatti, mentre il re rimane fermo. Credendo di vedere in realtà scruta, quasi spia, mentre un fumo denso di foschia appare, come se cenere regredisse fuoco per diventare legno umido da far asciugare.
Scintille e madida corteccia, ancora quella nebbia che come bruma lo impedisce a un mutilato panorama, e che racconta un sogno dentro un incubo che adesso può lasciare andare via. Sapide infezioni trasudano dalla parete di conchiglia, arde il camino nell' ala della frenesia delle menzogne, scivola via quell' ultima parte di intelletto che affiorava e quel che resta e' puro istinto dentro un' anima feroce di vogliosa verità e stancamente provata dall' osceno tentativo del falso e di quel nulla sapientemente costruito.
"Accade", pensa. "Ma come accade si può fare andare via". Il vero nutrimento per la vita e' quell' impulso primordiale che avvertiamo nelle scosse emotive che ci provoca la visione dell' effettivo "vero". In quel vero noi ci riconosciamo, e solo in quei rapidi momenti la completezza giunge a prenderci per non parlarci d' altro. Istanti come volumi, plasma che scorre più veloce, e percezioni nitide, poi tutto torna a quella nebbia avvolta alla foresta ed a quel povero regnante che non sa che non e' il tutto a appartenere a lui, ma viceversa.


Roberto De Sanctis - All Rights Reserved