29/08/14

Autunno.



     Le rughe su quell' asfalto bagnato avevano trasformato in affascinanti luccichii cadenzati i passaggi delle varie auto che, dopo una giornata di lavoro, stavano tornando a casa. Su quella panchina tutto scorreva, tutto, tranne le cose che avevo immediatamente prossime. Indossare quell' impermeabile aveva contribuito a far si che mi sembrava non stesse nemmeno piovendo.
Avevo avuto così il tempo per estraniarmi da tutto ed osservare quella pellicola lucida che era la strada, interrotta qua e la da cerchi di luce che venivano e andavano via.
Quando la pioggia è così forte, i tetti delle auto, piatti, respingono l' acqua nebulizzandola, come fa il terreno. Una coltre di nebbia fittizia si scarica sul confine del metallo e del liquido, mentre in mezzo le ombre dei veicoli di passaggio si alternano a quei coni di luce come in una danza elegante.
E il rumore. Quel suono che come una piccola cascata accompagna gli pneumatici che circolano, e i motori. Dal marmo zampilla altra acqua, mentre delle siepi lucidano le loro foglie immobili.
Onde, ogni tanto qualche schizzo e altre onde. Il cielo è nero come la pece, a fatica i miei occhi possono distinguere la luce dei lampioni, altra pioggia li fa sembrare come in un quadro, pastello, altri cerchi di luce. In mezzo tanti rigagnoli che come fili di seta provocano foschie di lenzuola stese con lo sfondo. Marcano il passaggio e quel semaforo direttore d' orchestra a scandire il ritmo che hanno.
E' giunto l' Autunno e fuori comincia a far freddo, però sto benissimo. Io mi sento a mio agio ed è come se tutto quanto succede non mi appartenesse. Come un visitatore che sta osservando il quadro di un artista, o come un pittore che sta creando il suo del quale ancora non v' è contezza.
Sono in una bolla muta sospesa ed osservo, ascolto. La scena si lascia guardare, di un quadro senza cornice, di una musica senza metrica e sciolta fra altre note dettate da cerchi di ferro e di gomma rotolate via. In mezzo a questo concerto di luci e suoni, ancora luci, cadono sui granelli di asfalto e disegnano immagini di cielo a terra che delle piccole onde portano via per far poi ritornare.

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25/08/14

Scripta manent.



      Collasso delle volontà. Cade il pensiero in una notte buia, scivola via su rotoli di carta e vene inchiostro disegnano e spezzano la monotonia di quel bianco candido. Argini cadono, ne osservo il tratto propagarsi e la carta imbeversi del nero della penna. Sinuose curve e ritmo dolce accompagnano l' incedere verso la fine e poi di nuovo sotto per una nuova parola, una nuova frase, una nuova retta.
Accattivante il punto rimane solo, interrompe il periodo per poi farne iniziare un altro con curve ancor più grandi, maiuscole.
- La scrittura e' statica - sento dire. No! Niente è più falso, anzi...nulla è più dinamico di una penna che scorre su un foglio piano. Se la si osserva danza nell' aria come un aeroplano e disegna traiettorie che corrispondono a quel che poi si lascia scritto. In quello scritto c' e' tutto il movimento, non della penna, della mente.
Non essere sedentari è leggere, e scrivere.
Aprire la mente alla scrittura significa governare i film che si vogliono vedere. Sono altri a dare facce e ruoli ad attori che non si muovono mai come la penna di uno scrittore li aveva immaginati.
Leggere un libro di un autore, trovarlo bello e poi recarsi al cinema per vederne il film. Quanto è distante l' interpretazione del regista da come si immagina quel libro, ed i volti, gli attori, ed i tratti salienti del libro, cercati, smarriti nelle trame di un film che se pur bello non racconta il movimento delle vostre idee sulla lettura.
A questo serve leggere ma ancor di più scrivere. Abbandonare questo straordinario vizio comporta una perdita di identità per ciascuno, e collettiva in genere.
Spesso ho bisogno fisico di infilarmi in un foglio con la mia biro. Voglio vedere cosa cade dalla mente su quel foglio. Quando non riesco tutto è confuso, tutto è più nebuloso. Credo che se tutti noi smettessimo di scrivere, e di leggere quanto scritto, sarebbe infinitamente più semplice addormentare il nostro senso critico, la nostra voglia innata di riflettere.
Scrittori si è per necessità proprie, poi, se si riesce ad essere apprezzati... tanto meglio, ma non credo esistano scrittori che non abbiano deciso di fare gli scrittori per buttare fuori quello che del mondo vedevano e che doveva andare via da essi, fosse stata immaginazione, curiosità, desiderio, passione o forza.
E' quella sottile linea d' inchiostro che come una pista si disegna ed insegue, cui il maggior dolore che si può dare, spostata in fogli, è correggerla o cambiarne il senso.
Il maggiore da altri, ma non il peggiore che possiamo fare noi a noi stessi.
Pensieri, idee, aforismi o racconti. Quanti fogli accartocciati e buttati, per un errore, o perché non ci piace ciò che stiamo scrivendo. Quanta parte di noi si è persa in quei cestini di stanze spesso rimaste chiuse a lungo. Polveri e noia sepolte, urlano i libri per essere liberati di nuovo.
Il caos regna sovrano in una stanza colma di libri senza una penna e l' inchiostro che fanno rumore. Una sedia che si muove è un aforisma, una copertina che si chiude è una poesia. La porta che cigola una lettera di un cuore inquieto, dei fogli caduti un dramma. E la costanza nel farlo diventano libri e racconti, in un vortice di mente in movimento. Poi il silenzio, il momento in cui il suono raggiunge il livello assoluto.

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21/08/14

Lì a Windermere.



    Nel lake district inglese esiste un posto che si poggia sul tempo. Se ti alzi al mattino puoi vedere il suo lago e le sagome delle barche ormeggiate le puoi immaginare. Certo è umido, ma che ci vuoi fare, è sempre Febbraio ed il nord della Cumbria, si sa, è così in questo periodo.
Arrivati da Kendal, altro posto carino, la radura si apre ed un prato divide il locale dal lago. La notte passata seduti nell' umido. I discorsi camminano e le parole si srotolano come bobine.
La sveglia alle sette e la meraviglia è quel mondo di fate. Elfi ed orchi si sono inseguiti, mentre i nani scavavano grotte. Tutto tace, ma è fumo di brace quella coltre di nebbia che cela ogni cosa. Ciò che resta è il riflesso dell' acqua, che confonde quel che finisce con ciò che comincia.
Naviga nella frescura mattiniera prima della colazione. Attonito ascolta gli uccelli sui rami degli alberi, ma resta rapito da quanto lui vede, o meglio, non vede. Alberi e fronde, pietre lucide e tratti di prato madido. Legno, cinguettii persi da una parte all' altra di rami immaginari. Ambleside deve ancora arrivare ed un terremoto di sussulti e pensieri giungono dal lago che pian piano si va schiarendo.
Una timida luce che affiora dona toni di magico al tutto. Come una cornice sta a un quadro, contengo l' idea di quel pontile che prima ignoravo e che ora mi sembra strada. Un' infinito di onde placide e foschia. Qualche voce di chi si sveglia e delle auto che passano vigili. Distante da tutto, distante dal mondo, nel mondo.
Shhhh, shhhh, shhhh...onde ritmiche che cullano il mio stato di ipnosi regressiva su quanto passato qualche attimo prima.
Shhhh, shhhh, shhhh... le onde e le pietre che aspettano le onde. Qualche cigno ed un pezzo di pane, agita l' ali e combatte fra papere ed oche.
Shhhh, shhhh, shhhh...voglio silenzio, vuole silenzio, come vuole il rumore del nulla.
Sento il rumore del nulla, percepibile il suono rassegnato del battello che galleggia all' attracco. La nebbia si alza ed il ritardo fa si che diradandosi ciò che qualche minuto prima era color cenere diventi verde scuro. Vegetazione, calma, un sogno da navigare in Aprile.
Presto arriverà il tempo, poi d' un tratto l' idillio è spezzato dal brusco ritorno a quanto scorre al presente, un clacson disturba e sveglia la quiete del lago di Windermere. Addio Windermere, non ci sei più tu per me, come non ci sono più io per te, ti ho solo assaggiata ma tornerò a riprendermi la magia che quel suono mi ha tolto.

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19/08/14

Fe.



Usami per favore
Usami per ciò che servo
Usami perché ti servo

Brilla una lacrima mentre sul viso scorre
Suona una musica quando il mio cuore bolle
Mescolo sorrisi a pianto
Scemano vergogna e vanto
Resta ciò che è celato
Quello che io ho voluto

Tace la maschera per chi non sa
Fragile costola di quel che va
Violenta e fragile nella mia mano
Libra nell' aria quel deltaplano
Cado nel vento come sospeso
Nuvole e pioggia non hanno peso

Ma è la mia vita e compare il prezzo
Tempi e catene che io non spezzo
Forza e vigore che mi abbandona
Giunge dall' alto dell' aria buona
Rotola e cinge, curva e si abbraccia
Volge lo sguardo come minaccia

Tace la voce parlan le dita
della mia mano che non è amica
Sono vicino poi ti respiro
vortice e sensi per una biro
Alito e sposto, studio ed osservo
ogni indumento che io conservo

Usami per favore
Usami per ciò che voglio
Usami perché ti voglio

Morte dei miei desideri sopiti
Ora determino e sono stupiti
Tattica e densa questa marea
Nitida voglia che adesso si crea
Sono di fronte a quanto agognato
Poco mi importa se adesso è bagnato

Voltati, stringimi, prendi la mano
Mentre ti tocco va a fuoco piano
Ruvida mordimi fino alla schiena
Ora che il sangue mi corre in vena
Graffiami via la mia pelle arrossata
Strappo i tuoi gemiti con una unghiata

Fuori fa freddo ma dentro è bollente
Due corpi uniti dalla corrente
Un fiume elettrico labbra infuocate
Altre persone che sono sbocciate
Dammi te stessa come sei adesso
Dammi l' amore, la donna e anche il sesso

Prenditi quello che prima cercavi
Ora di me tu possiedi le chiavi
Tasta il calore che hai generato
Sentimi fino a mancarti il fiato
Chiamami, stringimi e volta lo sguardo
Pungiti pure con questo cardo

Usami per favore
Fallo perché sei audace
Fallo perché ti piace.


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17/08/14

Il dubbio di Malachìa.



      Fluido inchiostro che scorre e schizza sul papiro. Il silenzio di una sala quasi buia dove una candela fa le veci del sole. Vani enormi e silenti dove si perde l' ordine del tempo e giorno e notte non hanno più alcun valore. Restano soltanto i tempi della preghiera degli altri monaci a dettare i ritmi di giornate che si rincorrono con sempre maggiore bramosia di finire per poi ricominciare. Dalle storie ai dogmi. Dalle poesie ai racconti. Una perizia quasi commovente si mescola alla evanescente forma e alla volontà di uomini chiusi, vestiti di una tunica e cordame, volutamente poveri nel contrasto del freddo e delle difficoltà. I lacci dei sandali e le pelli premono sul terreno che quando molle li risucchia e quando fermo fragrante li respinge. Poi l' erba, con la sua umidità. Canali scavati e l' acqua si porta da se verso gli orti. Ma tutto resta medesimo nelle buie stanze. Ancora inchiostro che scorre e schizza e nuovi papiri da colorare ordinati con una maiuscola attenta ed una metrica rigorosa. In quelle penne di uccello, in quelle curve il colore si imprime per sempre. Quelle lenti che quasi non servono, ogni tanto qua e la un manoscritto finisce ed è pronto per la rilegatura. Altri monaci osservano. Sono gli anziani e le barbe confermano. I mastri dei maestri, o i maestri dei mastri. Rigorosi quanto i primi rileggono, contestando ogni minima imperfezione agli autori, ma tutto tace, quasi sempre tutto è perfetto. Cenni di apprezzamento e quelle barbe bianche dondolano come zucchero filato che se ci fosse un bambino li morderebbe. Ma il tempo che un anziano apprezza il lavoro è già per lo scrittore impiegato per ricominciare. Giusto il tempo di stropicciarsi gli occhi, alzarsi un po' e sgranchirsi le ossa, fare due passi e un boccone, e una nuova pagina scorre sotto le braccia sul legno del tavolo antico per ricominciare.
Stavolta una poesia, e non è un caso che a scriverla sia Malachia. Un frate dalle linee perfette, come perfetto è il suo essere frate. Scelse per un periodo di vivere senza sandali, scalzo come nostro Signore diceva, ma con le mani sempre coperte, serrate da guanti di lana dai quali sortivano appena le estremità delle dita. E meno male...chissà cosa sarebbe stato del suo dipingere la calligrafia se solo avesse trattato per quel periodo le sue mani e non i suoi piedi.
Malachia ha lo sguardo consumato dal tempo, ma la sua penna è un' arma nelle mani del monastero, dei suoi moniti, dei suoi voti. Egli fa la doccia al fiume, dove l' acqua è fredda e corrente, non vuole la vasca e non ha fuoco per scaldare l' acqua. "Niente regali" afferma, come nostro Signore, e se qualche raffreddore in più rispetto agli altri, pazienza, c'è sempre la tolleranza dei fratelli frati calligrafi a sopportare qualche starnuto, ma la sua opera non conosce sosta, e volta la pagina come fosse giornate intere, settimane. Ma settimane sue, giornate loro, dove non esiste giorno e non esiste notte, dove il ritmo delle scritture è rotto soltanto dalle 5 preghiere del giorno. Malachia prega in silenzio, anzi sussurra. Riflette e considera, mal che vada pensa. Costruisce la sua sapienza dentro le semplici cose che gli succedono, e plasma, forma il suo sapere al cospetto di quel che non vede: il giorno e la notte. Uno studio costante del suo animo, la reazione agli scritti e a quel che legge. E' scritto da altri che lo hanno pensato prima di me. Propaganda od esperienza? Malachia si domanda. Vorrà nostro Signore che lui si interroghi su quanto legge? C' è spazio per il dubbio nei fiumi del sapere? Volta pagina è una nuova regola lo impegna su forme perfette di temi discutibili. Forma, volume, tempo, ritmo. In buona sostanza variabili. Interpretazione o dogma. Dubbio o certezza.
"Appartengo io alla certezza" si chiede, od è più cristianamente plausibile il dubbio. Non un dubbio sul Credo, ma domanda, alla quale già altri hanno dato risposta. Ma vorrà nostro Signore? Ripensando all' umiltà che lo contraddistingue, finendo un periodo nuovo su quella pagina nuova, Malachia poggia la penna, si alza e va via dalla stanza. Passando nei corridoi del monastero incontra un crocifisso con nostro Signore, un inginocchiatoio è li per lui, per la sua preghiera. Un Pater Noster, sibillino, di nuovo mormorato più che detto, poi, dal basso all' alto, uno sguardo e un sorriso. La Ragione non è mai terrena. Certo dei suoi dubbi, Malachia si alza e prosegue verso l' esterno del monastero, non prima di essere passato a controllare il suo orto. Le verdure stanno bene, e non lo sanno. Le confetture sono li, come la birra ed il vino. Il pane cuoce nel forno ed il frate fornaio saluta. Malachia tira il portone verso l' interno, quel legno spesso si muove cigolando, lui accompagna il suo corpo verso il fiume, si denuda ed entra nell' acqua, gelida come sempre. "Fuggi me dalle mie certezze" esclama "e fuggi tutti i miei dubbi da me...", "sono un servo del Signore nostro e se vorrà risponderò coerentemente a ciò che credo, se non vorrà sarò il suo sbaglio che non ammette certezza".
Sogna Malachia che tutto sia per il Signore nostro. Malachia vorrebbe che davvero tutto fosse come è ora, però nel fiume lui non ha l' inchiostro.

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15/08/14

Sassi.



       Mi sono sempre fermato sulle piccole cose. Ho sempre creduto che le cose dove non si ferma il pensiero degli altri hanno più spazio per il mio, quindi sassi.
Sformi, leggeri, porosi, massicci, cupi, friabili, neri. Sassi in montagna, caduti, rotolanti, messi li, chissà da quanti millenni, statici, soli. Sassi levigati, erosi, la lenta azione dell' acqua o del vento, degli anni.
Le famose intemperie, dopotutto essi sono all' addiaccio.
Meraviglia. Forme, colori, venature. Vederli, ma anche toccarli. Lisci, bagnati, raccolti dal ghiaietto di una riva lacustre, e quel rumore, morbido, muto, del lago che arriva. Non come il mare arrabbiato, non una replica costante, ordinata, piuttosto l' idea di accarezzare ed andare via, poi tornare, riaccarezzare e riandare via.
 I miei occhi osservano quella gobba d' acqua che giunge tenera, sensibile.
Togliere un sasso a quel sogno un po' mi dispiace, ma anche le cose importanti per me sono chiuse li dentro.

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Livelli.



         Adoro i libri, non per il contenuto o per la copertina, ma per il pensare che mi suscitano.
Come e' fatto? Non ci si pensa quasi mai, ma un libro e' una delle poche cose nelle quali si può trovare la commistione perfetta fra volume e forma.
Pensaci un po'. Apri la copertina, ed oltre il bianco della prima pagina ed il titolo e dediche alla seconda, saltata l' introduzione (non vorrai mica comprare un' idea fornita da altri di quanto stai per leggere...) ti si manifesta una mezza pagina d' inizio.
Alt.
Prima cosa. Sei sul bordo della piscina e guardi l' acqua. Qualcuno fa il bagno ma non sai ancora se e' gelida o fresca: immergi il piede, la mezza pagina. Non sai ancora se il libro ti piacerà ma parti.
Inizia la tua lettura ed all' ultima riga già la mano sfila per voltarne una nuova, quasi accarezzandola.
Questa e' la fase in cui io controllo quasi sempre il numero a piè della nuova pagina.
Avanti.
Quando sei alla pagina 20, o giù di lì, accade che cominci a controllare lo spessore di quanto letto. Questa e' quasi sempre il momento in cui ci si stanca, se il libro ti sta annoiando o, meglio, non ti sorprende come tu avresti pensato.
Smetti.
E rifletti...
Certo... una lettera...una A che e' una A che ne sa che senso assume in una PAROLA  accostata alle altre lettere?
La stessa PAROLA: li, ferma, immobile.
PAROLA. Ma la dinamicità che gli da una frase, il senso che assume nel contesto, magari con un PUNTO, una VIRGOLA od un ACCENTO...vuoi mettere?
Penso ad Edwin A. Abbott. Un prete alla fine dell' 800 ha provato a spiegare la stessa cosa con la geometria, in un suo libro: Flatland.
FRASE, paragrafo o PAGINA. Voltata, osservata, toccata, letta. Poi un' altra, ed un altro capitolo ancora, fino a che il libro finisce.
Il fatto che ti sia piaciuto in qualche modo ti consola. Se il libro e' stato proprio bello addirittura azzardo che ti dispiace, un po' come quando sei alla stazione ed il treno con la tua amata sta per partire...il momento del fischio. La copertina si chiude ed il prezzo stampato sta li a ricordarti che tutto e' finito. Ciò che rimane e' la lettera A. Sola, in una PAROLA, di una FRASE, per una PAGINA di un CAPITOLO, nel LIBRO. Metafora di reincarnazione. Metafora della vita. Dove il trascorso e' ricchezza per tutto quanto non si conosce. Dove si attende con ansia e curiosità i prossimi eventi sapendo che ad un tratto tutto il LIBRO sarà finito.

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Stagioni.



Plumbeo il cielo di un' Estate strana, pioggia e ancora pioggia che non sazia, non si placa, alterna a calde fasi di bollenti istanti. Poi l' umido di un connubio denso, esagerato.
Questo ci sta regalando un periodo che di regola io odio. Il freddo e' il mio ambiente, il vento l' aria che davvero mi vive. Adesso c' e' questo, niente lucciole intermittenti per i prati che ho intorno. Lampioni sulla strada avvolti da foschia di umido che sembra nebbia. E il rumore la notte, quello si, gradito, di catene d' acqua che si adagiano sul terreno mentre a letto ho l' idea che sia già giunto Settembre.
Sono inquinato di vita, le strane stagioni sono una replica esatta di ciò che e' dentro, il sogno di un attimo che non abbia fine rimane li, gelido come la pietra, aspettando però che a cambiare od evolvere sia quel che e' interno, ma non c' e' più tempo.

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Slainte Ma.



      La nebbia fumo in una serata tarda di Febbraio, un freddo schietto attraversa questi panni fino alla pelle ed alle ossa. Non si vede nulla oltre i due palmi dal naso.
C' è neve a terra, ed un brivido, prima che il mio sguardo si posi su quella lanterna che come una lucciola intermittente cade ed aumenta di intensità alternandosi come un noioso scambio di Tennis.
Quella locanda contiene rumori invitanti per un viandante gelato che riesce a vedere ormai poco.
I ciottoli umidi sotto le scarpe danno al mio passo un nuovo incentivo verso quelle luci di vetro e di legno che cominciano a delineare sagome oscillanti e rumorose. Brindano e parlano nel mentre che mi avvicino, brindano e ciarlano.
Si apre la porta sotto l' ultima spinta delle mie braccia serrate al ferro circolare, il cigolio di un legno vetusto accompagna il mio ingresso in una bolgia di calore che mi accoglie. Oltre l' uscio la porta richiude, e lo stesso cigolio che mi ha accolto mi accompagna l' entrata.
I volti più prossimi tacciono, altri si voltano curiosi, per il resto rimane tutto normale, perfino quel suono: il rumore.
La prima sensazione è il calore. Un getto di aria calda come quella che si getta via da un phon mi travolge, fino a farmi bollire il collo e ad imperlarmi la fronte di strano sudore. Immediata è la messa a fuoco verso tutti gli oggetti, verso tutti gli astanti.
E' da molto che cammino, è da molto che il freddo mi accarezza fino a rendere il mio volto e le mie mani cristallo, come porcellane da battere a terra. Una rapida  panoramica mi fa individuare il luogo dove la birra è alla mescita, e con una certa concretezza mista a voglia mi dirigo proprio in quella direzione, come una passerella di modello assetato.
Lothian Road offre molto a chi lo sa cogliere e quel pub è pieno di gente anche se è giunto l' Inverno. "A pint of Tartan", chiedo da bere nella sua lingua, ma lui mi osserva strano, quasi incupito; "A pint of Tartan" ripeto, "please", e il suo "what" mi disarma.
"Ce l' ha con me" mi domando? Perché? Cosa c' è che non va? Mi avventuro in un "this one" indicando col dito la spina che voglio provare, un gesto risolutore che mi da la conferma di quanto la scuola possa ben poco contro la pratica e la quotidianità. Letteralmente la risposta che ricevo è: "Ah, Trn!", un suono gutturale che evidentemente per l' oste significa Tartan, ed inizia a spillare.
Liquido che si tuffa nel liquido. Una schiuma gentile per la mia pinta a forma di casa. Le mura il suo vetro ed assaggiarne via via le sue stanze, un gusto sublime.
Evaso il pagamento torno a voltarmi dopo attimi in cui sono stato via da tutto. Quelle stesse espressioni che in principio mi hanno accolto osservandomi adesso toccano ad altri avventori. Il mio posto è li, vicino alla stufa. Ho abbandonato i miei panni pesanti, ma i piedi ricordano bene il freddo all' esterno.
Un brindisi a me! Ed il primo sorso va giù come fiele, ma subito accende lo stomaco ed un moto di calore si dirige verso la testa. La mia birra è iniziata, ed in modo quasi automatico mi ritrovo ad essere parte di quel pendolo che sono i presenti mentre altra gente attraversa l' ingresso.
Meccanico il cigolio, meccanica e a tempo la torsione di numerosi colli avvolti in foulard come indossa Mancini, geometrico il disagio di chi entra, subito rotto dal cigolio di ritorno della porta, e di nuovo al bancone...si ripete, poi ancora ed ancora una volta.
La birra, unica mia compagnia di viaggio, mentre un nuovo cigolio annuncia altro ingresso, ma stavolta la faccia mi è nota, come è nota la scelta perché già percorsa.
Ciò che  è ignoto è osservare il suo volto che poco tempo prima è stato anche il mio. Lui non mi vede, io non lo chiamo. Voglio scrutare le sue reazioni al disagio, ma forse voglio vedere in lui il mio disagio.
Tutto da copione, entra, va al banco, qualche attimo per decidere cosa bere, si volta, cerca, ma stavolta lo chiamo, ed è li che l' espressione si scioglie e si viene a sedere.
L' amicizia e una birra è tutto ciò che serve in un luogo straniero dove le persone non ti capiscono. Un unico linguaggio universale la bevanda, una unica forma di sperimentare simposii come se in Italia fosse vino, ma col gusto antico di quella pietra e quel legno che insieme a quella fitta nebbia che qui chiamano "fog" rende il tuo tempo più affascinante, come se fosse attraversato da uno spazio che rimane sospeso.

14/08/14

Fuoco.



    Freddo porfido levigato l' anima di chi pena amori inconcludenti o solo bramati. Volge lo sguardo al cielo spesso in attesa di risposte che la pioggia innaffia di altre domande delle quali non si conosce soluzione nella confusione. Mescolato ad un grigio di flutto con in testa la schiuma di un' onda arrabbiata giunge inquieta la solita sensazione di vuoto, arricchita di un nulla silente nelle chiamate che non arrivano e nei pensieri che liberi viaggiano fino a galopparne le ignare richieste.
Ho fatto all' amore con tutto. La mia fantasia é spesso sfociata nelle più assurde rappresentazioni del delirio. Fuori da schemi consueti, anche un ciuffo di erba nel tempo è divenuto arnese di sessualità spinta, frenetica, fino alla sabbia, fino al terreno.
Esplorare i confini dell' erotismo attraverso la visione più elevata della natura, pensando ad un fuoco come possibilità, all' acqua come metodo. Concepire la corteccia di un albero come lama di desiderio feroce, e stordirsi in questo oblio di fenomenale istinto dove il corpo abbandona i confini e si mescola a liquidi organici e pioggia di gocce salate in un altro corpo. A tal punto la parola è nulla. Sono i sensi a viaggiare, sono gli occhi a parlare, mentre vortici di venti sottili accarezzano il derma in un brivido di fresca emozione mentre il palmo di una mano spinge il mento all' insù nelle braccia di lei che si cingono mentre grattano l' albero, alcova ove i nostri corpi si sono poggiati.
Quale droga migliore dell' eros? Il mio partner adeguato l' audacia, quel ghigno di voglia presa e vigile prende. Strappa i capelli e le urla sorde volgono al sorriso. La curva del collo assaggiata da una lingua che dipinge con sapienza la direzione che arriva alla nuca. Monito il suo sguardo, che invita a non arrestare le dita, ad usarle senza il dovuto rispetto, carinamente, violentemente, farle passare dalla carezza ad un graffio. E respiro. Respiro l' odore, gli odori. Una cute bagnata di voglie indicibili si abbandona alla danza concentrica. Una spirale infinita di occhi socchiusi, ansimi e capezzoli turgidi. Il mio corpo abbandonato siede in un sogno fisico, la mia anima si nutre della schiuma delle onde e di lei. Plumbeo ripetersi ritmico, mentre le mani prendono vigorose stilettate intorno a quel fuoco di brace. Accese sono le micce, e gli sguardi torbidi si innaffiano di sensi laterali che contrastano le regole dell' equilibrio e dell' inerzia. Vince su tutto, soffice nuvola di pensiero. Vince su tutto, candido ammettere di violenza e fascino tacito per quanto non detto. Vortice di passioni, mentre la esploro, mentre mi esplora. Assaporo le sue tracce in me vedendo me in lei, quella vena di intimità che gira vogliosa mi fa pensare a Allan Poe e alla sua discesa nel Maelstorm, ma non ce la faccio. Tutto è più forte di me che non posso più nulla. Vittima di me stesso e lei complice ed impotente anche lei a tutto quanto la natura ci ha permesso di vivere in attimi preziosi.

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Nda Juana.



     Svoltare a quel bivio e' come possedere la chiave di uno scrigno prezioso.
Pensare che occorra così poco per isolarsi da tutto e trovarsi d' un tratto in un luogo che vince il tempo e' a dir poco sensazionale. Quei ciottoli sotto le ruote e quell' andatura accorta per evitare che sassi più grandi danneggino qualcosa, prime paure che cedono il passo alle radure che si vanno via via aprendo intorno. Qua e la cavalli e mucche che pascolano, ma la possibilità di incontrare cervi non e' affatto remota; diverso e' per l' orso, sarebbe stupendo, ma un animale di cotanta forza e bellezza riesce ad essere anche timido e giustamente diffida dall' essere umano.
A sole due ore da Roma. Questo paradiso terrestre e' diviso dalla lingua di asfalto da monti e una strada sterrata di 5 km circa.
Chissà quanti passano al giorno, e quante volte ci sono passati, ignorandone l' esistenza.
Quando la valle si apre, tutta la sua bellezza quasi violenta gli occhi. Una conca e uno strappo azzurro sopra la testa. Il costone della Sparvera, una parete di trenta metri di roccia affiora fra bosco e vegetazione, ripido, quasi a voler riaffermare l' inaccessibilità della vetta pulita. Di la c' e' Preccia, un mucchio di alberi verde pastello vigorosi, quasi vivi; la stagione piovosa ha alimentato i colori del bosco e una mescola di tonalità di verde la fanno sembrare un quadro.
Di qua e di la le linee delle montagne accompagnano il cielo fino al Vallone, non prima di aver permesso la quiete al costone più alto: le persone del posto lo chiamano Rieuze de la Mira, Rialzo della Mira. Da li si domina buona parte dell' Appennino centrale, con una poltrona speciale verso il Gran Sasso d' Italia.

Il cielo ti schiaccia quando sei in quella conca. Nuvole a forma di cavalieri alla carica con tanto di spade e scudi, sagome curiose rimodellate attimo dopo attimo da un vento grave che da libero sfogo alla fantasia. Sovente si può veder piovere a macchie, ed una vera e propria aurora di gocce incupiscono parti dei monti che da valle sembrano bruni.
Se la pioggia e' imminente il cielo plumbeo avvolge il tuo corpo come un denso recipiente di mercurio sospeso a rovescio, un miliardo di termometri rotti ed un luccichio splendente pesa, sopra i tuoi occhi. L' idea che di li a poco tutto possa cadere ti accarezza, ed un terremoto interiore ti fa sospendere il corpo come fosse in una piscina pronta per essere svuotata al contrario.

E allora via. Per cercare riparo ci sono gli alberi, per i fulmini elettrici il sipario del tetto si fa violaceo, ma nulla protegge se non quella masseria che rimane chiusa per quasi un intero anno, per quella piccola cappella che ti ricorda come la preghiera e non gli uomini arrivi sempre dove la volontà trova, ed infine quella tettoia fatta di grandi travi, assemblati per quell' edificio dove puoi trovare la cordiale amicizia di una famiglia di pastori dedita alla cura di questo territorio.
Ci lascio un pò di cuore ogni volta. Ogni volta e' una parte differente del cuore, come differente ogni volta e' la sagoma di questa valle che si offre ai miei occhi.

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04/08/14

Intro Specto.

   Cadono foglie in Autunno.
Un vento confuso le scivola via dai rami degli alberi mentre in vortici di salsa e di rumba folleggiano per poi fermarsi giù in terra.
Ormai esauste e croccanti, non pesano nulla, quasi leggiadre e impotenti passive subiscono l' aria.
Se asciutte volteggiano ancora, e quel beige e marrone si mescolano in un mucchio leggero.
Le fronde si agitano, quasi protestando e cercando tutto quello che gli viene sottratto.
Una pioggia rada, ma spesso violenta, si sposa con quel cielo di piombo con tratti di oro.
Le nuvole cariche sono minaccia concreta, ed il vento, quel vento, accompagna il mio volto e lo sguardo che osserva.
La calma apparente e' in realtà un sontuoso trionfo di una natura che non ha padrone. Silente si scatena una guerra fra forze grandiose, tutto si rimescola dolce come ogni anno, leggero.
Espulso il superfluo si gioca su ritmi sottili e quella posta in palio da conquistare per garantirsi la sopravvivenza.
Non sono del tutto estraneo a quanto succede anzi, per la verità non lo sono affatto. Vedo in questo magma dinamico me stesso e le cose.
Come foglie ho già perso amicizie, rotolate via e mescolatesi fino a raggiungere il beige e il marrone. Il vento, il destino, giunto in maniera pesante a fare da giudice ed a scegliere cosa doveva restare e cosa andar via. Dunque e' arrivata la pioggia, rada, ma spesso violenta, ciò che accadeva dopo, il male che sentivo per tutto quanto si allontanava e che non volevo perdere. Tartassato come da un dolore costante, pizzicato qua e la da gocce grandi come biglie di vetro.
Male. Come le cose andate via. Le fronde, la mia reazione a ciò che mi accade. Sbraccio anch' io, mi dimeno, mentre si allontana la vita, e con essa le mie possibilità di agire bene restando obiettivo su tutto quanto adesso mi resta.

03/08/14

L' istante in cui conobbi le Highlands.


      Eravamo atterrati alle dieci e cinquantacinque di sera. 
Un volo tranquillo tutto sommato, ma la strada da fare fino all' albergo ci portava un pò di ansia. Ci mettemmo in macchina, un' elegante monovolume scura come le highlands. Ampia, pensata per sette persone. 
Noi eravamo sei, corpulenti e col classico bagaglio a mano di chi vola low cost per poter risparmiare qualcosa. Ci sistemammo e fummo pronti a partire. Io alla guida, autista e responsabile dell' itinerario. Federico al mio fianco, Alessandro, Fefe, Angelo e Matteo dietro. 
Luci perfette e volante per me, girai la chiave ed acceso il motore mi mossi. Federico studiava la cartina dove io avevo costruito l' itinerario di viaggio. 
Tutto ci parve veloce. La vettura presa subito al rental. Noi che da Prestwick ci eravamo trovati vicino Alexandria in un tempo brevissimo. 
"Non prendere per Greenock, svolta di qua!". Dunbarton poi Peasley, ed insieme a loro la promessa di quel lago favoloso. 
Sapevamo che il lago era lì, e la vegetazione nella notte ci accarezzava mentre quel dannato vento prendeva a schiaffi la nostra automobile.
Passata Luss dissi a Fede di essere attento. Di li a poco ci saremmo trovati in una località chiamata Tarbet. Quello era il nostro bivio, dovevamo svoltare per Arrochar. Con quel vento ad accompagnarci e la reception ad attenderci, nessuno aveva voglia di sbagliare strada.
Tarbet arrivò, noi svoltammo, ed un saliscendi di curve a destra e curve a sinistra ci fece sembrare quei tre chilometri un mare.
Parcheggiammo l' auto. La reception ci stava aspettando ma quel vento assurdo ci aveva fatto tardare. 
Non si vedeva nulla, se non la fioca luce nella nebbia su quel tetto spiovente che ci sembrava una lucciola intermittente. 
Potevamo però ascoltare un delirio. Il vento fischiava fino a gonfiare le nostre giacche. Il rumore delle onde del lago di Long, in realtà un' insenatura del mare, che giungeva quasi fino alle rive dell' altro lago, quelli si, vero, di Lomond. 
Quei tre soli chilometri a dividere queste estese piscine rigonfie di acqua. 
Entrammo e fui sollevato, per essere giunto e per essermi risparmiato quel vento. La sensazione fu la stessa per tutti, gli occhi di chi in un solo istante ricorda tutta la stanchezza di un viaggio comunque breve.
Ci guardammo intorno ed il sollievo aveva contagiato anche la piccola ragazza mora con i capelli a caschetto che ci stava aspettando dietro il banco dell' accoglienza.
"Are you from Italy?" ci chiese, ed io "yes, we have a reservation, my name is...", "that' s ok i was waiting for you".
Con molta gentilezza, e per nulla infastidita dal fatto che erano quasi le 1.30 di notte, fece presto a chiederci i documenti ed a consegnarci le chiavi delle nostre tre doppie.
Non avevamo una gran voglia di parlare, e non eravamo i soli. La stanchezza montata dall' ingresso stava avendo la meglio, e forse anche lei aveva voglia di sdraiarsi su quella branda di cui si vedeva la punta dentro la stanza nel retro della reception. Era piuttosto evidente comunque, che tutti avevamo le idee molto chiare. Decise le coppie, volammo a dormire.
Stanze accoglienti di un albergo normale. Rapido passaggio nel bagno per riprendersi un pò. Prima Ale, poi io. Ed il mio tempo la TV accesa per sentire qualcosa. Pantaloncini, ciabatte e tshirt, non un bello spettacolo, ma la casacca da notte e' indossata. Il tempo di presentare la mia testa al cuscino e i miei occhi serrati mi persero dentro un sonno cullato. 

Socchiusi gli occhi e mi stirai. Facendo dei versi e mugugnando per la luce che entrava dalle tendine mi volsi e vidi Alessandro già sveglio e seduto. Gli chiesi che ora era, e mi rispose che avevamo dormito 7 ore. Poi mi disse di tirare la tenda, perché c' era qualcosa che dovevo guardare.
Mi alzai dal letto e feci come mi aveva chiesto. Le tendine si aprirono come un sipario e, chinando impercettibilmente il capo indietro mentre i miei occhi erano ormai già sbarrati per lo stupore, mi resi conto in un attimo che il motivo per cui avevo deciso di fare quel viaggio era lì, di fronte ai miei occhi.
La notte precedente eravamo giunti in ritardo. La fretta e quel vento ci fecero prendere i nostri bagagli con grande velocità e dovendosi piegare in avanti per resistere alla forza dell' aria, ci eravamo coperti per bene per proteggerci dal quel freddo lacerante. Tutto questo ci aveva impedito anche solo di provare a vedere dove fossimo. 
La luce del giorno ed una quiete impensabile poche ore prima mi misero di fronte uno scenario maestoso: avevo per la prima volta di fronte a me le Alte Terre scozzesi. 
Tolsi lo sguardo a quel muro di pietra dopo almeno un minuto. 
Mi passarono nella mente tutti i flash della notte precedente, cercai di collocare tutti i momenti nell' ordine cronologico giusto e volevo capire perché non mi fossi preoccupato di osservare cosa avessi intorno. 
L' occhio scorse quel muro fino alle acque, ricostruii l' insenatura nella mia testa e scivolai con lo sguardo sul parcheggio per avere conferma della presenza dell' auto. Lei era lì, come c' ero io. 
Quel minuto trascorso io persi la testa. Io quel minuto volai.

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