24/04/15

Foiba.


(a Giovanni Parutta ed Angelo Tata, guardaboschi infoibati nella foiba di Visinada, e a tutte quelle sorelle e fratelli morti con la sola colpa di essere italiani)

            Cavità immonde dove l' odore di morte si mescola alla disperazione. Ammassati come mucchi di plastica giacciono dimenticati e nascosti. Un silenzio colpevole ha ignorato le loro drammatiche urla finendo per adempiere al piano della vergogna.
Molti ammaccati mentre altri già privi di vita, con lo sguardo all' insù e quella gelida speranza di qualsivoglia assistenza. E' una ricerca folle di un aiuto che non giungerà, ed in quegli attimi drammatici la reazione disperata e' il tentativo di distruggere quel filo spinato che cinge i polsi. Legati in fila, uno all' altra ed un sol colpo. Il resto cacciati giù a pedate, in fila indiana, per non consumare altri colpi e per alimentare il raccapriccio oltre le risa.
La sotto chi non ha la fortuna di essere già morto e' intento a schivare altri corpi che cadono giù. C' e' anche qualcuno che mentre schiva prova ad alleggerire la caduta degli altri non sapendo che salvarli significa in realtà condannarli ad un purgatorio più lungo dove fame e sete accentueranno sofferenze e folle distruzione. Eppure in alto e' la luce, e quelle parole straniere che con tanta tranquillità suggellano questa enorme vergogna.
Mucchi di cadaveri e feriti che si divincolano nell' ultima prova, ironia della sorte, di resistenza, prima che giunga la morte. Fiumani, dalmati ed istriani, con la sola colpa di non essere di un' altra etnia, sono la sotto. Un elenco scientifico ed accurato, fornito ai titini da altri italiani che avevano idee più barbare e simili all' infame mano che infierì.
Mille urla, duemila, diecimila. Nostri connazionali e non, che rotolano fra gli appigli e gli spuntoni di fessure dure. Colpi e tumefazioni, caos, mentre quei porci sorridono e naturalmente adempiono al loro dovere di soldati picchiando e massacrando di gusto.
La mente va a pensare se il tempo avrà lenito la loro vergognosa onta perpetrata verso inermi, ma immediatamente dopo un altro grido, ed altre colpe, di chi quegli elenchi ha fornito coagulando sangue infetto di pustole e menzognere voglie.
Definiti sono i confini dell' odio in un' infamia e, da individuo ancor prima che da italiano, non voglio ignorare quelle grida lunghe oltre settant' anni. La mia memoria e' spesa bene e come il fuoco di una fiaccola arde in quelle cavità profonde cercando di illuminare in maniera perpetua il ricordo di tutte quelle sorelle, dei miei fratelli, dei padri e delle madri.
Si cade, si precipita legati insieme per i polsi, e per i polsi terrò le persone cui darò il mio amore, come ho sempre fatto. E nel mio amore di tutti i giorni esisterà per sempre un angolo di affetto e di cordoglio per quegli straordinari martiri che a quella luce di vergogna hanno preferito chiudere gli occhi ed abbandonarsi ad una dignità che nessuno dei carnefici ha portato per un solo momento in tutta la sua vita.
Morti. Da italiani, ma anche sloveni e croati. Colpevoli di non pensare quello che dovevano, ma fieri. Dove altri han venduto la loro anima ed hanno tentato di celare, dove alcuni hanno puntato il dito per vendere o accusare, loro si sono immolati.
Oggi le loro grida si elevano ancora più forti del complice silenzio e delle risa di tutti i cani che hanno estinto quelle vite.
Il sapore di un raccapricciante trionfo e qualche brindisi non permetterà mai alle feci di tramutarsi in grano ed intelletto. Il rumore di quegli stivali e quel colpo di pistola hanno abbandonato le vostre laide vite ad un tormento: "se mai dovesse esistere un nuovo momento in cui per quelle cavità si faccia guerra, state pur certi che rivendicheremo quella terra, portando al nostro popolo, e ai vostri, il giusto ricordo, distruggendo quanto delle tombe dei carnefici sarà rimasto dopo avervi attraversato." Solo a quel punto per i martiri, per quella terra e anche per voi, potrà tornare con valore il senso della parola "libertà".

Non c' e' spazio per il fraintendimento, lo si deve a tutte quelle vittime della vostra schifosa infamia.

Roberto De Sanctis - All Rights Reserved



22/04/15

Da una miniera non si osservano le stelle.


"Questo breve brano e' dedicato in particolare ai 33 minatori cileni che dal 5 Agosto 2010 rimasero intrappolati 69 giorni nella miniera di San José, nella regione di Antofagasta, ed in generale a tutti quei minatori che hanno perso la loro vita sottoterra lavorando in condizioni disumane."

   
    Grotte di salgemma lucide e brillanti. Uno strano pulviscolo e le maschere a coprire gli occhi. Avanzo, e lento, il mio incedere si mescola a quello strano buio riflettente. Il carotaggio nella stanza in fondo rumoreggia e crea polveri nuove mentre lontano in altra galleria, echi di esplosioni si ascoltano nitide per rovinare ancora e continuare ad estrarre.
Lo stomaco della Terra, rotto e reso poltiglia salina, come cunei e viti si arrotola su se stessa la punta del macchinario. Un nastro trasportatore fa il resto, raccogliendo quella pietra di sale e portandone interi pezzi via per essere prima frammentati ancora e poi polverizzati. Tutto questo movimento e' un' orchestra, macchinari, addetti, tecnici; poi ancora binari dove carrelli trainati riportano in superficie quanto asportato nel cuore della miniera per essere lavorato.
Sono testimone di tutto questo, ma al solito il taglio dell' informazione viene frammentata a sua volta e investita dalla mia analisi mi fa riflettere sul fatto che quella miniera potrebbe essere in me: lo stomaco della Terra appunto.
Ragionando il nostro pianeta come un individuo, l' eccessivo sfruttamento dello stesso farebbe degenerare fino alle problematiche ed alle alterazioni, cosicché quella stessa miniera che guardo e che percorro, potrei osservarla con gli occhi di chi avverte una leggera gastrite, o qualche linea di febbre. Vedo come sono metodici gli operai che bucano, che piantano dinamite e raccolgono ciottoli di salgemma. Se allo stesso modo fosse una malattia rischierei di ammalarmene in maniera grave.
Fatto sta che quella passeggiata in una galleria di una miniera diviene in un momento un moto di consapevolezza e di coscienza. Attraverso i miei passi scruto come può insinuarsi un' incertezza in un pensiero, come un colpo di tosse potrebbe essere un' esplosione di salgemma. Credo fermamente ad una intima connessione fra quello che e' interiore ed il cielo intorno. In mezzo, noi, come comunità e presi singolarmente, a rappresentare un frammento di quota fra più livelli, alla ricerca di un passaggio che ci porti sempre al piano superiore. Poco importa se questo ci sia concesso attraverso la Musica o la Scultura, attraverso l' unione nell' altro e nella vera individualità (la coppia), attraverso un pennello o una matita.
Evolvere, salire. Senza che nessuna miniera renda friabili le fondamenta sulle quali costruiamo altri gradini. Avanzare, guardando fino al cielo, non dovendoci dimenticare di quante buche il nostro inconscio ha già prodotto nelle nostre sicurezze. Crepitii ed esplosioni, altro pulviscolo e le maschere che non ci permettono di vedere bene dove siamo. I rumori delle macchine accese e quei pezzi di sale che si muovono. C' e' tutto un comportamento in quella miniera, di individui e collettivo, persino per altri inconsapevoli si scava. Raggiungiamo l' elevazione perforandoci il sottosuolo. Non credo sia la strada per edificare il tetto e potersi finalmente liberare in aria. Funi sono piantate per salvare perché e' tutto già previsto, Come ascensori carichi risalgono le pareti di roccia per il cambio turno. E cosa sono quelle colonne di aria libera al cospetto del terreno se non delle corde che ci sorreggono quella unica possibilità di non ammalare ancora chi la sotto poi ci va a morire?

Roberto De Sanctis - All Rights Reserved



19/04/15

La prigione dei sensi.




         Vittime e carnefici. Cinici, rassegnati e faine. Tutto sviluppa, si contorce, si aggroviglia e mescola, ma non ci giurerei che e' questa l' evoluzione, o quanto meno non e' questa la mia idea di quel che possa assomigliare a un progredire.
Ci stiamo chiudendo in posizione fetale per difenderci da tutto, emozioni comprese, e l' indirizzo della Società ci da una grande mano. Soli insieme, e da un bel pò di tempo, sacrificando fino all' ultima goccia stillata di noi stessi pur di assomigliare il più possibile a quell' idea di bello che ci viene propinata.
Abbiamo il terrore dell' Essere, in quei rari casi in cui non siamo stupidamente convinti che ciò che siamo non ci e' stato consegnato, ma e' frutto delle nostre scelte. Ignari al punto da diventare idioti.
Automi. Come replicanti ci abbandoniamo alle nostre strade e ai nostri finti impegni seri, per non accorgerci di quello che abbiamo perso e che non riusciamo più a distinguere come vero. Qua e la giochiamo all' eversione, negli aspetti più intimi viviamo un conflitto che ci disintegra, ammalandoci lentamente di noi stessi quando non e' l' ospite a farci appassire piano.
Disobbediamo di continuo alle regole che ci vogliono evoluti ma pur sempre animali.
Siamo cardini di una forma foraggiata a scapito dei contenuti. Viviamo oramai nella paura di crollare, come edifici senza fondamenta e con pareti di finto acciaio. Abbandonati alla sorpresa quando il taglio di un individuo alieno ci sommerge con la sua diversità emotiva. I sensi affogano e si perdono in una ricerca dell' ignoto senza avere la capacità di sintesi.
Come in un lettore di un archivio vuoto, nuovi dati si accatastano, e alla vista ed al suono si sostituisce l' odore ed il tatto, mentre quel tonfo sordo interiore fa si che anche l' udito si adoperi per risvegliarci da ciò che siamo diventati.
L' odore dell' altro, altra estetica esplosa dalla forma e irrazionale scelta di una cecità che si libera. La raffinata bellezza dell' idea, nei suoni e nelle parti contenute, avvolge come fon che asciuga e scalda, lasciando che quel briciolo di elettricità trovata non sia rumore o chiasso, ma un lento valzer che conquista. Quelle curve e il loro sguardo, che e' poi  il mio, ruggendo come madre impotente di una vittima.
Via dai soldi e dagli aspetti materiali, veloci come fulmini d' istinto. Ricchi ci impoveriamo di quei contenuti pur avendo tutto.
La fragrante essenza latita. Ritornare alla Terra e alle stagioni per riscoprire il fondamento di quello che eravamo, sdoganandoci al contempo da questo servile automatismo dentro il quale siamo entrati tutti. Avere fiducia cieca nella pioggia e nel Sole che ci da il frutto, smettendo di contrastarla, quella pioggia, con continue stese di cemento e quelle firme su provvedimenti e concessioni folli.
Come il terreno e' la storia delle nostre vite, allagate in superficie per eccesso immobile di superfluo interiore. Siamo come alberi ove fatica a germogliare il frutto, aridi troppo a lungo e troppo spesso poi travolti da quelle piene improvvise. In tutto questo la crosta e' in movimento come cute che si invecchia, nuove rughe travolgono e muovono la forma pressando dall' interno mentre spinge il fuoco denso di un' essenza che ritorna ad affiorare.
La chiamano anima, ma e' solo una tavola ispessita di emozioni relegate in un angolo di noi che non facciamo più conoscere. Aliti di stanche conversazioni e di disinteresse ci spingono ad esplorarla, ed anche se il richiamo giunge remoto, e' da quella stessa tavola che deriviamo, con buona pace di chi ci vuole sagoma e non più volume.
Gli stessi che in quella forma di idiozia devono arginare quelle essenze perdute per mantenerci nel torpore di una libertà inattiva in grado di paralizzare mente e poi il confine stesso. Il nostro corpo e' in realtà prigione delle nostre pressioni, le nostre emozioni liberate e sorde debbono tornare ad essere, lasciandoci alle spalle quella vena di superfluo al cospetto di una cascata di elevata evoluzione.
Non lasciamocelo fare, non lasciatevelo fare.

Roberto De Sanctis - All Rights Reserved







15/04/15

Glen Coe.




     Croste e nubi cupe su quelle montagne. L' ardesia lucida fa scivolare l' acqua come fosse un tuffo e quella grassa erba gialla invernale la accoglie in timidi ruscelli che poi si gonfiano fino a divenire fiumi. Il terreno ne e' intriso al punto da far cristallizzare gli alberi caduti, donandogli così un aspetto lunare e di colore argento. Un branco di cervi attraversa la strada, e tranquillo, fuori dalle rare macchie di alberi bruca e mangia dove e' possibile, e dove quel ghiaietto scuro si mescola al prato, e che lo fa mangiare.
Resto fermo a guardarle come se fossi di pietra, rispettoso o rapito non so, ma in quelle montagne io vedo uno specchio. Mi interrompe la mente soltanto il rumore dell' acqua che continua a cadere. Ampia valle e cascate a migliaia, rigagnoli di luna che precipitano in quella conca per suggere dalla terra e ritornare al mare. Nevi alle cime e trekkers che si avventurano coi loro sacchi e con i loro bastoni. Strepitose potenze ed esplosioni muscolari di acido lattico e fatica. Li osservo come fossero alieni e per un istante considero di esserlo io, fatto sta che agli occhi miei le tre sorelle mi paralizzano.
E' così vicina e nitida la cima del monte, e poi il secondo e la terza, arriva la vena e la gola mi inghiotte gli stati d' animo facendomi soffrire del suo vento e del suo puro movimento. Un inno alla staticità perenne, all' immobilismo. Devastazione sublime degli intenti e feroce senso di abbandono.
Sto bene in quello specchio, e in quello specchio osservo, fino a comprendere l' infima dimensione di un essere e di tutte le sue volontà al cospetto di cotanto trionfo. Gobbe di neve e cumuli ammassati, una lingua di asfalto dove si può dormire, le vene di roccia spezzata per far posto alla forza dell' acqua. Accompagna la mia solitudine l' essenza di quel terreno coperto, molle come zucchero filato accatastato sulle brine e sui cristalli. Più avanti una valle nuova incontra la base di una pietra lucida, volta lo sguardo ed il raziocinio si perde nella campana del non ascolto. Come immerso nuoto in quel vento, mentre la traccia minima di ciò che sono si disperde sganciandosi da me come del fiato perso. Smarrire e ritrovare per poi lavarsi la coscienza da quell' inutile tentativo di resistergli. Sommerso, distrutto, soggiogato e livido, quella bellezza spezza da non sentire più le mani. Ardesia anch' io in altra ardesia mi fondo, prendendomi le gambe dal terreno forgia e pianta il seme di uno statico reagire. Immobilizza ancora fino a poter sentire la montagna in me quel tanto da poterne avere nostalgia quando mi lascia.
Per un istante ardesia. Per un istante ancora e quello dopo invece torno alle mie cose, e a dozzinali aspetti della vita umana, avendo la costante sensazione di vedere oltre il sipario di una scena senza sapere che il soffitto che gli piove e' tutto ciò che abbiamo fatto a pezzi dall' interno. Come bolle di sapone colme di miopia e come bollenti acque sulfuree tracciamo il disegno di un pianeta in un istante senza osservare da un lontano mite angolo che quella luna e' chiusa in un granello di una sabbia bianca di una spiaggia intera messa li per noi.
Evoco gli avi in uno spazio temporale mistico chiedendomi soltanto se l' accesso a quella porta di infinito sia stata concessa solamente a me. Misuro il mio egoismo sperandolo e beandomi di questa mera possibilità per poi lasciare ancora spazio a quei granelli ed accorgermi che una nuova onda di gelida intensità torna a travolgermi nell' animo.

Roberto De Sanctis - All Rights Reserved



10/04/15

Quell' attimo.




      Il sogno si nutre della vita, l' attenzione della costanza, il desiderio del pensiero, e quel sublime apice si nutre in quell' istante di un impegno d' estasi che ci travolge come un temporale estivo inaspettato. Per quell' istante costruiamo con abnegazione usando tempo e spendendo volontà. Per quel solo momento di travolgente, folle abbandono, accatastiamo concretezza, pianificazione e struttura. Ci liberiamo divaricando i nostri polmoni come ali e respirando sangue finiamo per gridare all' oblio la nostra pura essenza, che in quell' istante infiamma il corpo e rende tremule le membra. Scrosta le parti inquinate di noi che sono accumulate sulla sagoma liberandosi dalla forma in volumi ed esplodendo verso l' esterno come un lampo luminoso. Salta il vuoto e in quell' istante e' nulla. Tutto e' pieno e più null' altro vuole, pago del sogno e di quell' attenzione sfociati in un picco di pressione ipnotica che orgasmica ne appaga voluttà. Rodere la pelle, ed agitarsi elettrico, fino a interrompere il momento per distruggerlo e iniziare a ricrearlo. Epilogo di una veste caduta e di un decollo in quota, restando sospeso fra le regole del corpo cui obbedisce l' anima e dell' anima che ordina dal cuore. Stracci e rimasugli di trascorso in chi non sa raccogliere emozione, attraversa la vita fra le scelte abbandonate o non percorse rilasciando aura e disperdendola nei vari fiumi di nulla che si affacciano alle idee. Metamorfosi di un cupo divenire e rumorose scosse, per abbandonare i canoni ed i dogmi e liberarsi, fluttuando in cieli concentrici di varie intensità e giungendo all' Io senza le ombre e senza nubi. Coordina tempeste e mareggiate nelle membra, usurpa il tempo e lo violenta, godendo di momenti asserragliati dentro mura spesse, ora esplose da mani che prendono e carne che possiede. Intensità gelide ora scaldano ed erigono strutture nuove ed incoerenti, liquide e tessuti bagnano mentre le unghie scorrono su nuove schiene di sentieri ancora nuovi e troppo spesso velocemente accantonati.

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08/04/15

Frammenti.




        Nuove consistenze fatte di melassa e pietra scivolano attraverso le fessure di una vita mossa dall' inquieto. Brusii di insetti e spasmi nelle notti buie dove creature insonni spezzano la quiete di un silenzio cupo e di una tana asciutta. Corde di vegetali e materiale inerte avvolgono come foglie di felce raccolte per rifare il tetto. Ascolto una rana gracidare e nello spazio di un istante tutta la bruna macchia si accende di rumori. Messi d' argento paiono le faville al fuoco, mentre da esso si liberano gassosi crepitii di azzurro mentre le braci incandescenti come lava asciugano e riscaldano il contorno e le sue pietre. Camera di combustione esplode ed altra legna appoggio per scaldare ancora, come all' anima ed al corpo in un unisono il calore tocca e li consola. Dell' umido che e' intorno sole tracce nei rumori inaspettati e dirompenti, fruscio di foglie e timida la luna affaccia in qualche istante. Perso fra quel soffitto verde e quel terreno caldo, vago con le scosse verso fronde e rami, per poi cadere e frantumarmi come un involucro precipitato e ora distrutto.
Raccolta fruttuosa per l' attesa e per la via dell' intelletto, aridamente spento scaldo e con cortecce arriva. Croste di epica apatia mi crollano di fianco per liberarsi poi nella rigorosa deduzione e nell' ascolto. Mi fido di ciò che sono per pochi metri, fino a schiantare in una nuova maschera che qualcuno mi ha costretto ad indossare. In quella fitta vegetazione non distinguo il volto e toccandomi con le mie mani potrei essere davvero molto altro, ma le reazioni del corpo, i brividi, il sudore, misurano l' estensione di un essere che si propaga luminoso. E' in se, specchiandosi di nuovo in quelle braci ardenti che riflettono tutto il creato in uno spazio misero di aria bollente. Acredine e conflitto, mistero e raccapriccio, non e' assolutamente bello ciò che vedo. Un' umanità sorda che dismette i suoi locali dentro un corpo e un altro ancora, il timore della comprensione e forse anche la vergogna. Agita strati di un essere oramai sottomesso alla regola imposta, frugando fra i valori e quell' ipocrisia latente si abbandona al cielo per toccare ancora quel che adesso non e' altro che ricordo. Sciami sismici si assestano nei brividi di un uomo stanco di ascoltare le sue scuse, e a se stesso invoca raziocinio e follia. Bruna notte ascolta e chi ti parla e' perso, ma almeno sta cercando e a ritrovare mira. Fiamme e cristalli scoppiano fuori da un canto di sirena quando eliche di foglie roteano per dedicarsi al suolo. Mistiche emozioni e grappoli di identità raccolgono fino a tornare in quel bacino che era al contempo destrezza ed essenza convogliata. In quel contenitore avvolto e' il tempo, ed io nelle sue fasi, quando lucido osservo ed analizzo e quando invece dentro vortici empirici riscopro. Si frantuma la crosta che mi argina e mi cade il velo. Mille pezzi di corteccia ed anima si libera planando verso il cielo. Miniature sature di stelle si accompagnano a quel fuoco e alle faville, ed in quei gas che spigionavano lucenti lingue adesso mi abbandono piano. Creste e frantumi cuociono dentro la stanza di quel fuoco, e come apostoli le pietre osservano, lì a delimitare schegge luminose che deflagrano e in un attimo son spente. Cavità e flussi di calore vegliano sulla mia notte e tutto e' spento nel momento in cui mi sveglio.

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06/04/15

I calabroni non si accoppiano con le farfalle.




        I calabroni non si accoppiano con le farfalle. Questa frase letta questa sera e' stata davvero un' occasione per ripassare le emozioni che mi porto con me e nelle quali sovente navigo. Candide possibilità e singoli avvenimenti, casi, che si espandono in più anni dilatandosi per poi restringersi in un attimo. Per timore di perdere la testa non si fa mai nulla. Scientificamente non ho mai voluto raccogliere queste parole e farle mie, io, che mi sono incaponito su individui, che ho esplorato sensibilità fino ad esserne travolto. Ho perso la testa praticamente tutti i giorni della mia vita, da quella volta quando me la sono rotta, a tutte quelle volte che l' ho dedicata alle emozioni rare, raccogliendo fra gli arbusti e l' erba incolta smeraldi ed acquemarine con la forma di un cuore pulsante. Ho distinto il diamante fra i carboni di una vita ormai stanca scegliendo di nutrirmi delle intensità e delle pressioni di cui spesso parlo, abbandonando la forma piana tanto cara ad Edwin A. Abbott, dove rette si spostavano senza comprendere i piani impilati e le variabili superiori. L' anima volge la sua energia alle cose che arricchiscono, e pazienza se non sarà Battiato a suonare quell' arpa le cui corde vengono comunque pizzicate. Sciami di miei simili invadono e termini di paragone affievoliscono la dimensione di una stella, dove molecole si bombardano per rimescolarsi e deflagrare desiderio e metodica raffinata cortesia. Croste di pianeti si disperdono come satelliti che fuggono da orbite impostate, e lo spazio tenue sorge dietro quella pioggia di luce raffinando le pulsioni e l' incoscienza. No! Fuori da tutto ed estremamente lontano, dove un viaggio ascolta il corpo oltre la destinazione scelta e passivamente la subisce scaricando esperienze e mutazioni nell' aura che lo avvolge e cambia di intensità e di tono. Cardini e salgemma esplode come sabbia bianca in incaute torsioni di scie fumose liberando la farfalla che fra un pasto e l' altro si dimena come fosse soggiogata da una rete oscura, e immobile rifletta. Libera, il corpo e la mente, soffrendo nostalgie di eventi non ancora vissuti. Deludere, occasionalmente sconfessare il sogno e trasformarsi in pietra senza un cuore e senza ardere di fuoco e voglia. Le rotaie sono ancora lì su quei binari, e la locomotiva pompa tutto il vapore necessario per la corsa e anche di più. Fuori dal treno passa un paesaggio agitato come fosse un quadro di Monet, e nella sfilza di cornici in movimento celere si libera anche il senso dei tuoi pensieri. Come catene avvolgono e legano per sciogliersi in cubetti di marzapane e ceralacca che ora gocciola. Solva e' il confine di una strada a colori che può commuovere e far piangere. Lì tutto si muove ed e' mosso rimanendo perfetto, dalle abitazioni pastello alle maree. In quel luogo un treno accoglie e solleva dai pensieri imprigionati, liberandosi dai suoi binari e decollando verso cieli scatenati e nuvole di libellule incontaminate. Ma la vegetazione accoglie come fossero le mie emozioni e il mio trascorso, la vedo passare nei miei occhi giocando a che fossero i tuoi, e in quell' istante immagino di poterti trasmettere le intensità di ciò che sono, ma poi ricordo che sono un calabrone, ed i calabroni non si accoppiano con le farfalle.

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Pegaso.




          Non basta una barba a celare il viso, neanche nella notte, men che meno nella grotta di piume dove uno stallone bianco scarta e a tratti mette il muso nella pozza per abbeverarsi. Fuori piove a dirotto ed il fruscio degli alberi produce un suono spaventoso. Scesa la cavalcatura e direttosi all' anfratto per cercare un poco di ristoro quei due occhi sornioni lo avevano rapito immediatamente. Temeva che i due equini potessero scontrarsi ma si sbagliava, appena entrato Nero nella grotta la creatura bianca alzò la testa quasi per scrutare l' intruso, poi si pose sull' ospite umano. Ebbe giusto il tempo di incontrare le sue grandi narici con il suo negativo e subito si intesero. Sul varco della grotta peraltro arrivava un po' di vegetazione che le due bestie potevano assaggiare senza essere costretti a bagnarsi del temporale che si stava scatenando.
Tolta la sella a Nero e spiata per un po' la sua nuova amicizia, il cavaliere nervosamente si tolse gli abiti per non gelare e, vista la grandissima disponibilità di legno secco all' interno del suo riparo, cominciò a grattare un arbusto di quelli più sottili, per farne corteccia e paglia, così da rendere utile il suo acciarino e quel tanto da scaldarsi le membra e gli abiti svestiti. Se da mangiare abbondava per le due straordinarie bestie, per lui c' erano solo delle scatolette di carne e qualche galletta, ma il calore intervenuto e quella fiamma ipnotica scaldavano e nutrivano più dello stesso cibo. Stanco della foresta e delle notti di veglia per timore di bestie come lupi ed orsi, non avrebbe per nulla rinunciato a quel riparo straordinario ed accogliente, tant' e' che il suo fucile era appoggiato alla parete immediatamente dietro di lui e le munizioni erano giusto nella sacca che faceva da cuscino.
Una coperta arrotolata ferma grazie ad una cintura si allentò per poi distendersi sul terreno dopo una dozzinale pulita al giaciglio eletto per la notte. Sopra la coperta sistemò il suo sacco a pelo e posti una quindicina di grossi pezzi di legno vicino a se per ravvivare il fuoco durante la notte, dopo mangiato si distese. L' ultimo movimento prima di assopirsi fu il gesto di allungare il braccio alla parete e prendere il fucile per la canna, dopo di che lo distese lungo il suo fianco e chiuse gli occhi.
A quel punto il silenzio piumato avvolse la grotta e gli unici rumori che si potevano distinguere in mezzo alla tormenta, che invece fuori stava picchiando non poco, erano i suoi respiri profondi e il ruspare dei due equini in cerca di erba fresca per rifocillarsi ancora un po'.
Il rifrescare asciutto del fuoco che oramai era diventato brace lo ridestò giusto il tempo di prendere con le sue ruvide mani altri pezzi di legno e porli sulle ceneri bollenti arancio. Dovevano essere passate un paio d' ore, forse tre, e passata una mano sulla barba, alzò il capo lo stretto necessario per controllare se tutto era normale. Notò che Nero e Brenno, in quell' istante gli decise il nome, stavano dormendo quasi collo a collo. Di animali estranei all' ambiente non ce n' era ombra, ma fuori qualche flash e tuoni ripetuti annunciavano che il temporale stava avendo una evoluzione, se possibile in negativo. Un brivido e la fiamma che riprese ad illuminare gli ricordarono la comodità di quel giaciglio, pregustò per un istante l' idea di addormentarsi ancora e si rannicchiò di nuovo, per abbandonarsi a un nuovo sonno. In quell' istante il rumore del temporale che si dilatava in tuoni e fulmini gli fecero apprezzare ancor di più quel tessuto che lo avvolgeva e riprese a ronfare di gusto.

Un fascio di luce penetrava nella grotta. I due cavalli, il suo Nero e Brenno, come aveva deciso di chiamarlo la notte precedente, erano assenti, forse già usciti a brucare l' erba, non solo non aveva sentito nulla, il suo sonno si era rivelato così profondo da non avvertire nemmeno gli zoccoli dei due quadrupedi mentre si allontanavano verso l' esterno. Questo non lo distolse dal mettersi in piedi, poggiare il suo fucile e fare una ricca pisciata addosso alla parete. Seguì il copione la sua andatura claudicante ed ancora rincoglionita verso quella stessa pozza d' acqua dove aveva bevuto lo splendido cavallo bianco la sera prima, alla quale si affacciò e dalla quale bevve. Riempite le due borracce si tolse i pantaloni ed entrò in quello specchio limpido color turchese, si immerse e strofinandosi capelli e barba, viso, spalle e fianchi, iniziò a preoccuparsi di dove fosse il suo cavallo. Uscì dall' acqua scuotendosi come fa un cane, rimise i pantaloni e si diresse verso il fuoco, oramai cenere, anche se ancora calda. Prese i vestiti e constatò come fossero asciutti, era pronto, guardò la sella e solo allora ricordò che avrebbe dovuto recuperare Nero per sellarlo e ripartire. Si dirigeva verso l' uscita, ma ad un tratto si piantò, ricordava di prendere il fucile perché il panorama della mattina doveva essere mutato rispetto allo scenario in cui era arrivato la notte precedente. Seguiva il fascio di luce, ed era uscito dalla grotta domandandosi cosa sarebbe cambiato. Della sera prima non ricordava nulla, era giunto in quel posto per caso, e se non fosse per un fulmine che illuminò la grotta probabilmente non l' avrebbe neanche vista.
Una piccola radura in una macchia, alberi fitti e foglie sul terreno, sospese da un fitto strato di erba verde che apriva una piccola radura. Nero era comodamente al pascolo, ed i suoi denti stavano strappando i ciuffi e ne poteva sentire indistintamente il rumore. Di Brenno, lo straordinario stallone bianco non c' era traccia, ma poco male, considerato che ancora da domare poteva essere solo un ingombro. Certo - pensava - era una straordinaria bestia, ma cosa avrebbe potuto fare per ammansirlo e portarlo a se? Non sarebbe certo stato sufficiente il grado di confidenza intercorso fra lui e Nero...
Prese Nero per le redini e lo ridiresse al passo verso la grotta, fecero per entrare  ed il cavallo istintivamente chinò la testa anche se lo spazio era abbondante. Giunti vicino al fuoco il respiro del cavallo si fece nitrito. per una sera aveva saggiato la libertà del suo compagno Brenno ed il pensiero della sella stretta a cingere le membra non doveva essere piacevole. La barba si fece irta sotto la smorfia di fatica per sollevare la sua sella. La coperta avvolta ed il sacco a pelo erano pronti, messi lì da una parte, mentre l' altra coperta che separava il cuoio dalla pelle della bestia era piegata e pronta all' uso. La sollevò poggiandola sul dorso del cavallo, e sulla stessa poggiò in un secondo tempo quella sella. Il cavallo gonfiava per non far stringere, ma lui strinse di più, e sistemato il fucile nella fodera fu pronto per partire.
Due scalciate alle braci ed il fucile sistemato nel suo fodero. Coperte e sacco a pelo riavvolte e legate alla sella. Il rumore dei passi degli stivali sul terreno accompagnavano la nuova uscita dalla grotta, ma prima di andarsene il cavaliere si voltò un' ultima volta quasi con nostalgia, pensando alla notte passata, e pensando ad un sonno che da giorni non era stato così lieto.
Le redini in pugno, una pacca sul collo ed inforcò il piede per montare. Quando volse il collo verso la macchia vide Brenno. Il cavallo era tornato e scrollava il capo, per poi scartare e sollevarsi sulle zampe posteriori. Era dinamico, bellissimo, ma non irato. Quasi un saluto per le notte trascorsa insieme. Nero nitriva in segno di approvazione e lui dovette serrare le briglie per evitare una risposta più vigorosa. Lo scosse coi talloni ed il fedele animale cominciò ad andare.

La radura si era ben presto interrotta per restituire spazio al fitto bosco. Il machete aiutava nei tratti più impegnativi mentre il cavallo al suo passaggio marcava con gli zoccoli pestando quella piccola strada che scendeva a valle. Avevano ritrovato il fiume e lo stavano seguendo. Quel bacino d' acqua fortunoso incontrato nella notte precedente doveva essere niente altro che una vasca di liquido che da quel fiume si infiltrava nella grotta per via di qualche canale fra le rocce. L' impeto delle acque talvolta aumentava per poi concedersi, in alcuni tratti, delle fasi rilassate dove si apriva. Lì scorreva lento ed era facile tornare a rifocillare la fatica dell' equino, e le borracce al cavaliere. Felci e vegetazione bassa stavano mutando il panorama, e in un istante di paralisi quel cavaliere rimirò la scena. Se aveva mai pensato a come potesse essere l' Eden, non lo avrebbe mai considerato molto distante da quanto in quel momento appariva alla sua vista. Per un momento pensò persino di cacciare, al fine di rendere tutto perfetto, quella carne in scatola strideva con quella sua emozione nel vedere il tutto, ma non aveva incontrato ne cervi ne cinghiali, o almeno non ancora.
Fu col sole alto che decise per una sosta. Approfittò del momento per sciogliersi in un nuovo bagno, ma uscito dall' acqua, sapendola piena di pesci, improvvisò una lenza e delle esche per provare a catturarne uno. Ebbe il suo da fare per raccattare vermi. Diverso fu per la lenza, perché custodiva una matassa di filo nella sella. Calò la trappola nell' acqua ma, alzando lo sguardo verso la rupe che aveva di fronte, scorse un' immagine nota che lo rese attonito. Quel cavallo bianco era ancora lì, che impennava e col magnifico crine al vento. Come se lo stesse seguendo, come se vegliasse su di lui, non era troppo invadente da sovrapporsi a Nero, ma aveva quel comportamento di chi ha cura.
Inutile dire che la pesca fu infruttuosa, anzi, Sean, questo il nome del cavaliere, ripiegò in maniera piuttosto rapida  verso il solito rancio. Proponendosi nuove prospettive per la sera, riprese il cammino sotto quelle grandi nuvole bianche come cuscini che invadevano il cielo di un azzurro pastello mai visto prima. Nero appariva nervoso, ma nemmeno uno sprone al galoppo per alcune centinaia di metri lo distolse da quel suo stato emotivo. Di fronte, sulla strada, Brenno rincontrava la nostra fermandosi ad aspettarci. Doveva conoscere benissimo quelle terre, molto meglio di quanto fedeli fossero le mappe che il cavaliere Sean aveva con se. Era riuscito a giungere a quella rupe in men che non si dica, e ne era disceso in un lasso di tempo ancora più breve. Provava a pensarla sua quella bestia, ma si vedeva assolutamente che quell' animale era così libero, e tutto quello che lo avesse rinchiuso, fossero state redini o recinto, sarebbe stato per lui non solo incomprensibile ma addirittura inumano, senza considerare che chiunque avesse voluto catturarlo avrebbe dovuto patire le sue belle pene per riuscirci. Ma era vigile sulla loro strada, e a lui cominciava a non dispiacere, primo per la straordinaria bellezza di quella creatura, secondo perché aveva come il senso che vederlo lungo il cammino gli confermasse la bontà della strada.
Coordinazione e fatica non si alternavano, cresceva tutto in fretta e nello stesso momento. Ripetuti scarti fra la vegetazione adesso aperta non concedevano la possibilità di galoppare ancora. Non si poteva rischiare che Nero si azzoppasse per essere veloci, era necessario controllare dove gli zoccoli poggiassero perché il terreno lungo il fiume era pietroso. A tratti scosceso poi si equilibrava divenendo pianeggiante, ma in un momento Sean allontanò Nero dalla riva. Polveri esplose di vapori acquei si sollevavano da quella che sembrava una cascata piuttosto grande. Scese, legò il cavallo a un albero per assicurarsi che non avesse a che mettere piede in quel futuro incerto e si diresse cautamente verso quelle nuvole di polvere acquea.
Lo scenario era mozzafiato e preoccupante, ed ancora una volta Brenno si affacciava a lui guardandolo negli occhi. Di fronte una discesa d' acqua di almeno quaranta metri, con vari rimbalzi sulle rocce sottostanti che fracasserebbero senza dubbio sotto l' impeto del fiume. Interrogarsi su quanta strada occorre per aggirare quell' ostacolo serviva a poco, ne si potevano gettare. Era perfettamente ovvio che sarebbe morto lui con il cavallo.
Ma Brenno incalzava, lo guidava, gli mostrava tutto il suo ardore ed i suoi impeti incomprensibili, continuando ad elevarsi e scalciare in aria con le zampe anteriori.
Sean tornò indietro ed un nitrito che assomigliò a un rimprovero si diffuse dal cavallo. Nero adesso era slegato e le redini portavano lontano da quel picco. Sean stava agitandosi per portarlo via ma anche Nero adesso scalciava ed impennava, tanto da far pensare a Sean che quel cavallo in realtà non fosse più il suo ma di quell' altra bestia.
Sean rimase a vedere impotente Nero che si dirigeva verso Brenno, camminando fiero, e fu solo in quel momento che si accorse di quanto il suo cavallo fosse bello. Fischiò, e Nero volse il capo, quasi capendolo corse indietro e Sean, obbedendo ad una sensazione, gli sciolse la sella per toglierla e pose via anche il panno sottostante. Nero scuoteva ancora il capo ringraziando, e a quel punto Sean sentì di dover togliere anche le briglie. Rifletteva su quanto tempo prima lo aveva lasciato libero così di correre veloce e nudo di altre cose. Nero giunse a lui, e lui capì che il suo cavallo lo stava salutando, ma lo lasciò comunque libero di andare. Un cavallo nero, un cavallo bianco. Li vide farsi incontro, felici, si avvicinarono e si annusarono, scartarono qua e la per poi voltarsi a quella nube d' acqua. L' urlo di Sean combaciò con i due salti immensi, mai visti prima, in tutta la loro sinuosa bellezza. Sean fece per recarsi in fretta verso la cascata, fu allora che le due sagome si sollevarono sontuose. Cavalli alati resi liberi e sciolti dagli impegni terreni, volavano, e col loro volo Sean cadde a terra, ma a cadere non fu solo lui, parve cadere tutta quella terra, l' Oregon, nazione piena di natura pronta ad esplodere, di cascate e foreste, di vette e deserti collosi. Ma in un istante in quella terra di colori nitidi Nero si trasformava in un Pegaso cui un altro Pegaso aveva insegnato a volare il tempo di una notte insieme passata in una grotta. E in quello stesso istante Sean, il cavaliere, aveva appreso che la libertà risiede in un urlo di un uomo come nelle briglie che incatenano la bestia. Sciolte le briglie e liberi dalle catene due cavalli gli insegnarono in quegli attimi che si può volare, spiegandogli l' aria nell' acqua e l' acqua nel sole, come gli alberi e la grotta, come l' erba e le pietre sulle rive.


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04/04/15

Muri dinamici.




            E' una ripida parete quella che compare di fronte. La roccia e' friabile ed il cammino e' insicuro, ma devo tentare e se fallisco rischiare di nuovo. La guardo, e cerco di esplorarla stando fermo, scrutando gli appigli e creandomi un percorso che sia per lo meno il più sicuro possibile. Ripasso a memoria più volte la strada trovata e trascorso del tempo decido. Allora il primo piede si fa coraggio e con esso le mani. Aggancio la parete tenendomi e fermo la punta delle dita dentro una vena aperta, sono in tensione ed e' a quel punto che provo a sollevarmi spingendo sul piede d' appoggio. Ce la faccio, riesco a salire di un passo, e' la volta del secondo piede. Si fissa in un buco mentre il primo spinge, la mano accompagna e la seconda cerca un appiglio. Adesso sono in salita, un passo e una mano che aggancia, poi l' altra mano e ancora un passo. Non voltarti, non guardare giù mi ripeto, eppure sto salendo da poco. Vertigini e vento. Continuo ad arrampicare quella parete, che grazie a Dio, non e' perpendicolare al terreno in tutti i suoi tratti: sono una decina di metri e rifiato, evitando comunque di osservare la strada percorsa. Mi ripeto che guardare in basso non serve, ma la tentazione di voltarmi e disattendere esiste. Ad ogni passo aggiungo altezza, ad ogni passo schiaccio il trascorso come fosse perso per sempre. Attenzione totalmente dedicata a quello che sarà, pensando che sbagliare potrebbe voler dire tornare all' indietro se non morire. Torrido sole asciuga il terreno e giova, anche se il sudore rende gli arti madidi per lo sforzo. Qualche anfratto può nascondere serpenti, e in generale le difficoltà hanno un volto lugubre e aggressivo, ma ci sono, nel pieno delle mie forze e pronto alla creazione, perché reazione vorrebbe dire perdita del contatto col terreno. Ossa e tendini, muscoli e la vista volta verso il cielo. Nubi lontane e azzurro pastello, luminosa cornice e tarlo nella mente quel pensiero di arrivare in cima. Ciottoli cadono e li ascolto soltanto. Il passato e' messo alle spalle, non tornare sui passi già fatti ripeto di nuovo. Corde di legno e rami, vegetazione fitta ed umide foglie. Soffia la polvere via dalla pietra mentre un fischio sinistro scorre su tutta la parete. Quota, sale la tensione e il punto di non ritorno giunge lento, quando sono ormai un ombrello pieno d' acqua che ha drenato liquidi fino agli indumenti, rendendoli aderenti alla mia cute e facendoli graffiare fino ad arrossire la mia pelle a ogni torsione.
Impossibile riscendere non resta che riprendere quel fiato andato via. La posizione e' scomoda, ma almeno sono in sicurezza, mentre do tempo al vento di mentirmi col sollievo del suo soffio su quegli indumenti che si asciugano veloci. Ali di sale sul tessuto, maglia intrisa di sudore asciutto e ho di nuovo il tempo di partire. Mancano gli uccelli che sospesi in quel vento osservano l' intruso. Spero non abbiano a trovare il loro nido sulla strada, e ascolto i loro versi per capire se una traccia e' da evitare.
Come asciuga il tessuto, un sorso d' acqua e la mia mente si rigenera. Ho fastidio di vestire, e sono pigro a ripartire, osservo ancora la parete convincendomi che il prossimo sarà di nuovo un altro primo passo. Serro e sorretto dalle braccia punto, e mi sollevo. Nuoto oramai nel vento di un muro musicale, ascoltandone le fessure e riscoprendo nuove piccole complessità mi riavvicino e vedo quello che non poteva non sfuggire da distante. Crepe e ciuffi d' erba fluttuano sotto le forze di quell' aria che di mite adesso ha solo un timido ricordo. Franano polveri e piccoli sassi sotto il suo incedere, come se mi scrollassi dei miei ricordi insieme a quel muro. Ciottoli rotolano in fondo e giunti al piano ascolto solo un piccolo rumore. Aliti per cui non ho tempo, salgo ancora, passo dopo passo, appiglio dopo appiglio, mirando quella cima che comincia ad arrivare. Altri umidi istanti e la sudorazione torna folle, impedendomi a tratti di vedere. Sono in alto e la parete di trenta metri che ho camminato mi consegna un altro punto dove fermarmi a riflettere e riposare. Non guardare Roberto, non guardare! E invece gli occhi mirano col capo volto al panorama che mi appare. Per poi riscendere, ed e' a quel punto che mi attacco alla pietra come fa un bambino con la propria madre. Ho visto quel che e' stato e se non fossero le vertigini ed il timore dell' altezza a ricordarmi la strada percorsa sarei sufficientemente incosciente da pensare che non e' servito. Adoro gli istanti in cui mi fermo a pensare, e adoro ancor di più quegli istanti in cui metto a frutto il ricordo. Elimino comprimendoli quelli privi di significato e i passi fatti in un istante appaiono, svelando le venature nella pietra ed il bruciore dei miei muscoli per sorreggermi mentre la salita incombe. Violate le barriere fra il passato e quell' istante comprendo il vento, lo sforzo e il muro stesso, annidandomi nelle mie idee e vedendo quella ripida parete come un semplice percorso, fatto delle sue difficoltà che si offrono a me per arrivare in cima voltarmi e far tesoro della strada fatta per affrontarne una nuova più difficile ed in grado di permettermi di vedere sempre meglio oltre i miei occhi.

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02/04/15

Confini del nulla.




           Candidamente annuncio la dipartita delle mie volontà. Vanesie idee attraversano il mio corpo che si lascia prendere. Scosse tintinnanti e tremule sorreggono le arterie mentre tensioni muscolari nuove incidono nei miei minuti trascorsi inoperosi. Fluttua la clessidra ed io seduto sopra immobile l' ascolto. Il fruscio di un dondolo noioso mi trapassa, come se fossi anch' io solo l' ombra di un nulla immaginato. Bolidi di luce forano quell' aura acida che adesso rappresento, e pulviscoli fluorescenti navigano l' aria come fossero assenti. L' unica dinamicità di questo impero statico sono le idee, che elettriche propagano memoria e sinergie concentriche. Viaggiano singole per poi riunirsi in una spirale a chiocciola che si eleva verso la fonte di quella luce, ed altre esplosioni di pensieri si odono e variano l' intensità di quel nulla assente. Strumenti e tendini dentro la cute e fra le carni sono liquido che si raggruppa all' aria. Ossa e cellule sorreggono quella struttura che non c' e'. Vaga il pensiero e le mie riflessioni sciolte si aggrovigliano per poi tornare via liberandosi come nodi sciolti di lacci di lana. Le percezioni abbandonano un ego vuoto di contenuti per scaricarsi come fulmini in varie direzioni. La materia e' antimateria dove il pensiero si risucchia e raccoglie i granelli di sabbia di quella clessidra. Code color oro di sabbie chiare guidano in un' idea di fine che non si tormenta. Ascolto nettari di suono e levigate mura d' aria pressano come in un tubo di velocità per riapparire immobili dove ritorno alle esperienze tattili. Guardo le mani e la mia sagoma e' sconvolta. Ancora brividi ed una vista che ritorna. La luce si rischiara e quel concetto di immagini vetuste ricompare. Il cerchio si abbandona e si dilata a quello schermo dei miei occhi. Ancora tramortito per il nulla fatto e per le scosse di idee che ho attraversato mi accarezzo le braccia con le mani per capire se e' finita.

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01/04/15

La rosa bianca.


Dedicato alle 150 vittime del volo 4U9525.


          C' e' una scolaresca in attesa dell' imbarco. Ci sono due musicisti, dei pendolari dell' aria e delle famiglie. Ci sono dei professori, degli operai ed alcuni turisti. Seduti su quelle sedie al gate A72, mentre i più infaticabili son già in fila, ad attenderne l' apertura. Ecco arrivare le due hostess, con la loro bella divisa Germanwings. Nel brusio della sala c' e' pure chi non se ne accorge, poi ci sono altri che invece si alzano e si mettono a loro volta in fila andando ad occupare ordinatamente i posti immediatamente successivi alla fine della coda. Le hostess hanno il loro da fare con quelle fettucce, le stesse che ti fanno girare come criceti in gabbia quando arrivi al controllo bagagli. Poi guardano fuori, come per cercare qualcosa, ma fuori non c' e' nulla, se non il comune traffico di veicoli che trasportano bagagli e personale dell' aeroporto che adempie alle proprie mansioni. D' un tratto e' quello strano walkie-talkie della hostess di sinistra a parlare, in un tedesco incomprensibile e metallico sussurra qualcosa di scricchiolato che però lei comprende. La ragazza si tinge il suo volto di un sorriso e saluta i primi passeggeri in coda. Apre quel nastro maledetto ed iniziano le operazioni d' imbarco. L' altra signorina fa lo stesso, con il monitor davanti controlla documenti e vouchers, quei fogli di carta A4 stampati di cui rimane soltanto la striscia più in basso. I più tecnologici passano addirittura il cellulare per lo screening del biglietto e varcano la soglia. Ad entrare per primi sono, neanche a dirlo, i tedeschi. Hanno comprato per 5.00 € in più la priorità per salire prima e scegliersi il posto. Uno dopo l' altro, ordinatamente, e muniti del solo bagaglio a mano, quasi sempre un trolley, avanzano riducendo la fila pian piano. Poi e' la volta di chi quei 5.00 € non li ha voluti spendere: il resto dei passeggeri, e come il biglietto pagato meno, così lentamente sembra ritardare anche le operazioni d' imbarco. Poi c' e' anche chi si alza soltanto quando il grosso della fila e' smaltito, sono quelli che se ne fregano, quelli che non hanno preferenze per i posti e quelli che viaggiano da soli. 144 persone, mentre la prima navetta si allontana in direzione del velivolo, c' e' chi e' filtrato dall' imbarco dopo che ne aspetta una nuova che però non tarda ad arrivare. Le due hostess chiudono di nuovo la porta del gate.
Quel "psssssssss" annuncia l' apertura delle porte della navetta, quelli della prima sono già arrivati ed in coda. I nuovi giunti si accodano e sotto un lieve vento aspettano il turno per salire a bordo guadagnando un passo alla volta. Le due scale, una anteriore, l' altra posteriore, a mano a mano si svuotano e l' aereo ingoia tutti i suoi passeggeri. Qualcuno ride, altri scherzano. Altri tacciono mentre alcuni fremono nell' attesa di sedere. Tutti sistemano i bagagli nei vani appena sopra i posti. Via via che tutti sistemano il loro bagaglio il corridoio centrale dell' Airbus A320 si svuota e le due hostess che prima controllavano i bigletti all' imbarco, con l' ausilio di un' altra hostess e di uno steward, cominciano a verificare che l' ordine dei bagagli nei vani sia il più ordinato possibile. I vani pieni vengono chiusi, ed una frenesia di comunicazioni fra personale ha inizio come se tutto dovesse succedere in quel momento. Una volta chiusi tutti i vani la voce del pilota, metallica e disturbata, accoglie i passeggeri in maniera educata ed incomprensibile, prima in lingua inglese e poi in lingua tedesca. In concomitanza due hostess e lo steward si posizionano ad uguali distanze ed iniziano a maneggiare cinture di sicurezza, giubbotti di salvataggio fluorescenti e mascherine per la respirazione dell' ossigeno. D' un tratto il vociare in tutte quelle lingue si riduce bruscamente, e la maggior parte dei passeggeri viene coinvolta da quelle operazioni che i tre addetti dell' equipaggio stanno mostrando, per poi riprendere immediatamente dopo che, indicate le uscite di emergenza, i tre raccolgono il loro materiale per riportarlo nei cassetti dov' era posto prima della dimostrazione.
All' aeroporto di El Prat i motori dell' aeroplano cominciano a rollare, il comandante riprende a parlare nel suo inglese incomprensibile mentre gli addetti, dopo aver conteggiato nuovamente il numero dei passeggeri per prassi, ricontrollano una per una le file di passeggeri, accertandosi che tutti abbiano lo schienale alzato in maniera corretta, che tutti i tavolini siano chiusi e che le cinture di sicurezza siano ben allacciate. A quel punto il rumore dei motori si fa più intenso ed e' sempre difficile capire se si e' già in movimento oppure no, solo un occhio sugli oblò del velivolo confermano che l' aereo si muove.
Airbus A320  211 D-AIPX Germanwings. Volo 4U9525 diretto da Barcellona El-Prat a Flughafen Dusseldorf International. L' incedere lento sull' asfalto porta i passeggeri e l' equipaggio sulla pista che la torre di controllo ha selezionato per il decollo. Un altro aereo e' già in fase di decollo, e ve ne e' un altro in coda ad attendere. Decollato quello sarà la volta del volo 4U9525. L' altro aereo accelera la velocità, l' A320 ruota e si mette in posizione fino a quando l' ok della torre di controllo non permette al pilota di spingere il velivolo a tutta e le schiene dei passeggeri verso gli schienali. Sono le 10.01 di Martedì 24 Marzo 2015, la pista adesso scorre sotto l' aereo, e con essa tutti i fabbricati dell' aeroporto. L' orizzonte va veloce fino a quando la punta del mezzo non si solleva e la terra si fa diagonale. Le ruote si staccano dal terreno e l' aereo prende velocemente quota fino a mostrare le case e le arterie urbane prima e a distinguere i soli appezzamenti di terreno dal colore poi.
La fase di decollo e' ultimata, il rumore del carrello che rientra annuncia l' incontro delle prime nuvole e delle prime turbolenze. Aria fredda e aria calda si incontrano destabilizzando e facendo scuotere l' intero velivolo quasi come tremasse. L' aeroplano taglia i nembi e i cirri per penetrare in un azzurro luminoso della mattina di quel 24 Marzo. C' e' tutto il sole lassù, quando l' apparecchio si sistema e si bilancia una volta trovata la rotta, restando però comunque in salita. Le hostess sono già a lavoro, ed il corridoio e' attraversato da quei tacchi volitivi e celeri. L' indicatore luminoso delle cinture allacciate si spegne, ed i primi incontinenti già volano via al bagno nel brusio generale. Altre persone conversano amabilmente. C' e' chi legge un libro e chi indossa le cuffie dalle quali esce un leggerissimo rumore di musica. Altri provano a dormire mentre chi sta al fianco dei finestrini può vedere in qualche tratto di nuvole rade che l' aereo già viaggia sul mare. Lo steward passa e con una voce atona bassa in inglese avvisa che a breve sarà possibile avere qualcosa da bere e da mangiare. Qualche altro passeggero richiama la sua attenzione e lui si ferma a parlare ed ascoltare richieste. Passa qualche minuto e, all' unisono, dalla coda e dalla parte immediatamente dietro la cabina di comando, cominciano a scorrere fra le file i due carrelli metallici con le vettovaglie, l' anteriore con due hostess, il posteriore con una hostess e lo steward.  Sono passati venti minuti dal decollo, e tutti i ragazzi della scolaresca sono eccitati, stanno tornando a casa dopo uno scambio culturale in Spagna. Hanno fra i 14 ed i 16 anni, e tutti stanno riportando indietro qualche ricordo dalla loro parentesi iberica. Una mamma solleva un bambino che sta piangendo e lo dondola in alto per farlo sorridere. Le orecchie si turano ed un noioso suono le infastidisce. C' e' chi compensa come compensano i subacquei, turandosi il naso. Altri sbadigliano e altri ancora continuano a tacere. Qualcuno a paura. Teme l' aereo da sempre, ma non ne parla con altri. La paura di volare lo imbarazza quindi ostenta tranquillità. Per alcuni il ritorno al volo sul terreno e' tranquillizzante. La Francia affaccia il suo primo lembo di territorio. Volgendo il capo all' indietro si vede ancora il mare, mentre ruotando il collo in avanti già sono le Alpi. Alle 10.47 dall' aereo parte una richiesta di soccorso. ma già dalle 10.39 il velivolo non appare più sulle mappe dei radar. Due elicotteri della gendarmeria francese ne localizzeranno i resti ( forse...) in località Prads-Haute_Bléone, fra Digne-les Bains e Barcelonnette. 150 vite si sono spente senza che nessuno sappia effettivamente cosa sia accaduto in quegli otto minuti fra le 10.39 e le 10.47 su quell' aeroplano.
Ho preso molte volte l' aereo, incrociando nei vari aeroporti molti volti di persone con le quali ho volato. Ho atteso spesso seduto nei gate, od in fila in piedi per imbarcare, riflettendo su cosa facessero queste persone nelle loro vite, da dove stessero arrivando, dove fossero diretti, pensando ad i nostri incontri casuali come a momenti di destini convergenti che ci portavano in quell' istante nello stesso luogo.
Quei volti sono storie, affetti e ricordi. Sono le loro famiglie, compagne e mariti. Sono dottori, ingegneri, studenti, manovali ed avvocati. Ci sono relazioni nate e relazioni finite, vite trascorse e vite che stanno imparando a muovere i primi passi da sole, e poi c' e' quel bambino e la sua mamma.
Accade qualcosa. Forse davvero un gesto di un folle con una responsabilità enorme ed un peso sulla coscienza troppo lieve. O forse qualcos' altro. E tutto svanisce in quegli otto minuti.
Il peso specifico di quegli otto minuti e' enorme, mostruoso. 480 secondi che interrompono 150 vite umane. La ricerca della reale verità si deve a loro, ma dovrebbe essere ricercata anche per capire quante connessioni umane sono state spezzate, quanti fili di frequentazioni. Quante famiglie attenderanno invano il rientro di un proprio caro? Quanti uffici, studi o cantieri rimarranno orfani di personale? Quanti banchi di scuola? E quel neonato. Chi ha il potere di decidere che una vita così breve possa interrompersi?
Risulta abbastanza chiaro che non si e' trattato di una fatalità? Nevi copriranno ancora quella vetta, ma non nevicherà mai abbastanza nelle incoscienze di un singolo folle o di un' accolita di porci maledetti che decidono di sacrificare ai loro esperimenti anche una sola vita umana. Una simbolica rosa bianca nel cielo della Provenza, affinché i suoi petali si disperdano come i resti di quell' aereo per ritrovarsi disintegrati o quasi spariti senza lasciare alcuna traccia. Riposate in pace angeli.


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