26/10/14

Due Popoli.




     Gli occhi aperti su una Domenica, mentre l' odore del caffè e del latte che bolle si diffonde per le stanze di casa. Mia madre e' in cucina alle prese col pranzo, e lo sa, alle tre la partita, devo andare via. Si mangia presto la Domenica in casa mia, o quanto meno ci si prova. Lo stadio grazie al cielo non e' lontano, saranno 5 km al massimo, ed il motorino mi aiuta. Il risveglio e' comunque un pò lento. Quel biscotto inzuppato nel caffellatte, la odio la schiuma, perfetto. Mia madre che aspetta il verdetto, poi un sorriso felice per aver accontentato il suo pargolo di un metro e novanta. A tredici anni ero già una colonna, ma a tredici anni era papà a portarmi allo stadio. Ora vado da solo, e quando giochiamo in casa mi prende un' ansia che vorrei essere lì la mattina alle sette.
La mattina trascorre lenta, fatta una doccia, quasi bighellonando fra cosa mi chiede di fare mia madre ed il televideo. All' estero giocano prima, alcuni anche al Sabato. Da noi non e' così, tutti insieme alle tre, alle quattro quando giunge l' Estate. E allora giù coi risultati, sognando di incontrarli un giorno. Scorro di fretta gli esiti sognando di volare sull' Europa. Spesso l' atlante mi aiuta, ed e' così che sono a Madrid per vedere il Real, poi volo via a Barcellona, schizzo su per raggiungere Lione, poi Parigi, poi Londra. Arsenal, West Ham, Chelsea, ma anche Aston Villa e Liverpool. Aston Villa non e' una città, allora scopro che esiste Birmingham, un buon esercizio di geografia, ignorando che fra qualche hanno mi sarà utile. E allora United e City, poi Leeds. Di nuovo giù, verso Londra c' e' Norwich, la squadra dei canarini, e via dall' isola fino ad Amburgo. "Mainz cos' e'?" mi domando, e mi accorgo che esiste Magonza. Ho già sentito parlare del Colonia, così come del Borussia Moenchengladbach, una squadra che per scriverla penso, ci metti sei giorni. Verdeneri, non come quelli di Dortmund, che ricordano le api. Poi il Bayern di Monaco, per poi scoprire che Monaco ha un' altra società, più antica, che ha i nostri stessi colori ed e' del 1860. "Ma il Bayern e' nato nel 1900" penso, allora pareggio e proseguo per tornare a quello che sarà.
Oggi la Lazio gioca col Toro. La nostra storia e quella del Toro hanno degli aspetti che le fanno assomigliare. Non tanta gloria, se si esclude l' immediato dopoguerra per loro, ma voglia da vendere, determinazione, mista ad altrettanta sfortuna. Con dinamiche assolutamente differenti, carpito rose bellissime e punto spine molto dolorose. Sono poco più che un adolescente, ma amo la Lazio, e conseguentemente tutto quello che la riguarda. Non posso non sapere della tragedia che colpì il Toro nel 1949, quando quel maledetto aereo stava rientrando a Torino e si schiantò sulla collina di Superga: tutti morti. Anche questo mi riguarda, anche se non ero ancora nato e mio padre aveva un anno. Così come mi riguarda l' assurda morte del nostro "Angelo Biondo", in quella maledetta gioielleria del Fleming, oppure la lunga speranza vanificata dalla dipartita del Maestro. Io non potevo ricordarlo, se non dai racconti di mio padre. Lui, laziale come me, come mio nonno, come disse a me di Re Cecconi e Maestrelli, nonno fece lo stesso con lui parlando del Grande Torino.
Il Calcio non significa molto per me se non c' e' la Lazio di mezzo. La Lazio e' "anche" Calcio, ma ho sempre pensato che oltre le squadre di calcio, ed allo straordinario gioco cromatico delle casacche, esiste qualcosa di differente. Per carità, in ogni Paese probabilmente, ma nel mio, l' Italia, ho sempre pensato che Lazio, Torino e Genoa sono qualcosa di differente, forse Popoli, forse Famiglie, comunque non solo tre squadre.
Il Genoa deve questa mia considerazione al fatto che i seminaristi inglesi che nel 1893 decisero di fondarlo, fecero del Genoa CFC la compagine con più storia della Nazione, e questo vuol pur dire qualcosa.
Per Lazio e Torino il discorso e' diverso. Un attaccamento timido, quasi isterico. Un tifoso della Lazio, del Toro, non parlano di Lazio o di Toro, spesso nemmeno con altri laziali o granata. Un tifoso della Lazio, o del Toro, custodisce, sorveglia, accarezza la sua storia gelosamente. Strana gente il laziale, il granata, non deve convincerti di nulla, non vuole parlarne, e' una cosa che vive in cuor suo, e questo fa si che l' affetto divenga tempesta, se non uragano.
"Preparate la tavola, e' pronto", mia madre dolce avvisa. Mi risveglio dal sogn(n)o sportivo in cui mi ero adagiato, per vedere l' ora, scattare in piedi e prendere la tovaglia. "Ottimo, sono ancora le 11.30", bicchieri, posate, piatti e tovaglioli volano sul tavolo della sala da pranzo, seguiti dall' acqua, dal vino e dal pane. Tutto e' pronto mentre mamma arriva sostenendo il tegame con le pattine. " Attenti che scotta", accompagna sporzionando la pasta. Altro sguardo all' orologio, 11:37, tutto a posto, la Lazio mi aspetta. A tavola si parla, neanche a dirlo, di Lazio. Papà mi chiede se gioca Ruben Sosa, se si e' rimesso oppure non ce l' ha fatta. Fra un boccone e l' altro, ci si sposta al secondo, ed al Torino, con buona pace di mia madre che oramai ha smesso da anni di tentare un cambio di conversazione e di genere. Tutti a casa sanno che se c'e' la Lazio altro posto non c' e', siamo pieni. Sono forti, quel Lentini poi... non pensiamoci, oggi c' e' il sole ed il cielo e limpido. Oggi di sopra fanno il tifo per noi.
Il pranzo mi ruba quei venti minuti, mezz' ora. Quando gli altri sono al caffè, io comincio i miei riti. "Roberto, accendi che e' pronto", in cucina rispondo ed eseguo, ma se possibile nell' altra mano ho già lo spazzolino da denti. Plano sul bagno per ottemperare alle ultime necessità igieniche, sono fuori ed il caffè sta uscendo. Il rumore della nostra Bialetti non tradisce, ed e' quello che fa scattare la molla della partita. Torno di la, tazzine e bicchiere per me, zucchero, cucchiaino e verso il caffè, neanche mi siedo. La camera aspetta, e quello e' un momento tutto mio. Sono disordinatissimo, ma mi accorgo che mentre ero sotto la doccia mia madre ha già provveduto a rifare il letto. Calzini, Jeans e camicia, il bottone non entra nell' asola; pullover indosso e giacchetto sul letto, apro il cassetto. Le mie cose della Lazio sono tutte lì; "si, la sciarpa, ma quale?" penso, "l' ultima a bande con la toppa o quella NON OMOLOGATI? O magari quella degli Eagles, Uniti per Vincere...".  Per me già a quel tempo la Lazio aveva valore "1". Non esistevano gruppi, o club, esisteva soltanto Lei. Legare i lacci delle Clarks cenere era facile, mettere i jeans a sigaretta all' esterno di queste affinché scendessero bene lo era meno. Fatto questo, passavo alla scelta cappello. Da pescatore celeste bianco celeste con aquila stilizzata e scritta Lazio, o cappello a visiera del Chelsea F.C. blu con righine bianche che scendevano e visiera rossa? Oppure ancora anonimo col cappello da pescatore "Barbour" che tanto mi piaceva col mio giacchetto di pelle aviatore "Schott"? Fatto sta che con questa vera e propria vestizione annullavo totalmente l' effetto "pranzo anticipato" per accorgermi che era un quarto all' una. Altra consuetudine, salutavo tutti di fretta e mia madre: "sta attento", per poi chiudere la porta e rientrare immediatamente a prendere qualcosa che avevo dimenticato, fossero forse le chiavi o forse il portafoglio, ma mai l' abbonamento.
Il mio EsseAcca volava via fuori dal cancello, e quello che vedevo da quel motorino con la mia sciarpa al collo erano sogni, non strade e palazzi. Guidavo con una certa attenzione alle altre auto per poter vedere qualche sciarpa fuori dal finestrino. Altri motorini come il mio passavano qua e la per poi raccogliersi al semaforo, chi con la sciarpa al collo e chi no. Qualche istante e mi gettavo giù per la Cassia Nuova, verso Corso Francia, qualche radio parlava di Lazio e nel traffico che dovevo sviare c' era tempo per sapere cosa aveva detto la mattina il nostro Mister. Salito sulla tangenziale l' ultimo incanto: quel tunnel sempre troppo buio che quando si bagnava di bianco e di azzurro diventava un turbinio di clacson assordanti. Giunto alla quasi completa cecità, avvolto da questo festival musicale rumoroso, l' uscita del tunnel era quasi mistica, e quello che appariva di fronte, se possibile, lo era ancora di più. Quella Statua, la carraia, la mia Curva. Svoltavo a sinistra per aggirare il ministero degli esteri, ma puntualmente il pezzetto contromano per andare a mettere il motorino giù, in fondo alle scale. Un mare bianco e azzurro si affacciava dall' edificio del M.A.E., travertino puro, candido come le nuvole. Maestoso lo guardavo, e vedendo quel bianco, lo sguardo non poteva che scivolare su quel cielo terso, azzurro, perfetto, che con quell' edificio era quasi un' altra bandiera, la più grande. Scendevo verso la marea umana, dove cercavo ed incontravo i miei amici al solito posto, ai "paninari", per passare due ore insieme aspettando Lazio-Toro.
Lo stadio distrugge in un attimo estrazioni sociali, professioni, interessi. La Lazio e' "1", si parlava soltanto di Lei e di come poterla aiutare. Naturalmente il nostro tempo scivolava verso l' ingresso allo stadio, dove tanti volti e tanti cenni d' intesa insieme ai "permesso" ci accompagnavano prima verso le tre rampe di scale in salita, poi, dalla vetrata, una rapida occhiata ai granata, di la, poi allo striscione più bello, e via, sui gradini che ci portavano al di sopra del boccaporto. Giunto al mio posto salutavo chi non avevo ancora visto e chi non mi aveva ancora visto salutava me. Cominciava il nostro lavoro, tutti insieme, io e i miei amici, a sostener la Lazio.

L' appuntamento era con loro. L' appuntamento era con Lei. Loro ed io eravamo Lei, Lei noi.

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24/10/14

Movimento.



     Taccio perché lo trovo più funzionale del parlare quando i punti di vista sono talmente distanti da non potersi incontrare, ma se resto in silenzio mi sento dire che evidentemente ciò che penso e' privo di contenuti seri, dunque parlo. Se parlo non va bene perché noto cose che i più non vogliono sentirsi dire, ma l' ipocrisia non alberga in me e allora parlo. Essi si sentono attaccati da ciò che dico perché non sono abituati a combattere per le proprie idee, quando incontrano qualcuno che invece e' disposto a morire per le sue, si spiazzano, e non comprendono. Resto in silenzio ed e' perché evidentemente quello che ho da dire non e' importante. Parlo e vengo tacciato di essere un sognatore, un esaltato. Ascolto, e tutto quello che vedo e che sento non lo ritengo meglio di me, ne di quello che penso. Sono uno snob? Mi abbandono nelle chiacchiere o sono uno che preferisce star zitto? Comincio a non avere più la libertà di essere come sono?
Sta crollando di fronte a me tutta la certezza costruita su basi di polvere. Io lo vedo. Come pesci agonizzanti si dibattono in discussioni che neanche cerco. Abbandonano la livrea che si sono messi sul capo e tutta intorno da soli, e parlano una lingua vetusta e di situazioni obsolete, strutture di muffa radicate oltre le quali non riescono a vedere, pur di non comprendere che tutto e' in movimento. Accettare il cambiamento, recepire lo scossone, il grande terremoto che sta avvenendo in maniera silenziosa, li lascia sbigottiti e privi di qualsiasi razionale capacità di pensiero che non siano parole vuote dette a se stessi più che agli altri. Tacitamente accolgo la loro staticità, mi aspetto che facciano altrettanto con il mio movimento.
Termino questo pensiero con uno scritto, e mi viene in aiuto la disciplina nipponica dell' intendere le cose: "Corpo che pensa, Mente che danza". Forse ciò che sembra fuori inganna, e' un panda, un bradipo o una tartaruga, ma dentro c' e' un bisonte che punta gli zoccoli a terra e non ha voglia di fermarsi. Una bestia di una forza esplosiva che non si ferma di fronte alla menzogna perpetrata da chi ha colonizzato oramai anche le coscienze di chi si e' fatto abbindolare.
Potrà sembrare presunzione, ma non lo è affatto. Non sono certo il depositario della verità assoluta. Affiora solamente la stanchezza per qualcosa che come un nastro si ripete, un qualcosa di cui mi vogliono convincere gli altri, tante soluzioni offerte per un qualcosa che non e' un problema. Ho le mie idee, e non ho bisogno di essere salvato da nessuno.


19/10/14

Pelle.




      Morde e respira l' odore mentre nel buio il suo corpo si accende e si volta lento. Lo sguardo comprensivo raccoglie ed il dorso accarezza fino ad averne brividi. I piedi bisticciano mentre le ginocchia strofinano per fare un po' caldo. Il fianco si volta perfetto, la coperta si adagia e lo vedo sul letto.
Una spalla si muove in avanti e flette fino ad allungare la schiena con la sensuale insenatura a dividerla in parte, un' arteria pastello che vomita crine fino alla nuca. Il collo e la mano che passa, attraversa i trapezi ed i seni scendendo alla pancia. Come un fiume di lava che monta è il calore che sale, la radura gestita che accoglie e accompagna le dita. Sfiora colli di forme incantevoli, quasi sontuose, come rose si poggiano petali e voglie latenti.
La notte risveglia passioni e ricordi di pelle. Sanguigni desideri muovono corpi ad unirsi, e lo studio dell' uno e dell' altro scientifici prendono. Come le mani che cercano, dorsi e palmi, dita ed unghiate di dita. Avvolti e gli sguardi, e le mani e il sudore. Si cingono e vogliono, e l' intesa e il risveglio dei cuori che palpitano. Minuti diventano tempo, spesi come studio l' uno dell' essenza dell' altro.
Ovvie pulsioni e tessuto si tira e si arrotola male. E quel caldo, e quel freddo, e la pelle s' infiamma e si scioglie, come l' uno che morde, come l' altro che lascia il terreno per trovarsi in un' estasi muta. Crudo racconto di notti annoiate, di coppie svogliate e di mani che frugano vuote. Cruda istantanea di un risveglio confuso, di una bolgia che infiamma e rovina, volontà che d' un tratto si china. Poi resta il piacere.

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18/10/14

Confuse.




    Tace mentre scivola via lenta la notte. Fuori la pioggia cade densa come fango. Sarà forse la cena pesante o forse è il pensiero di cosa sarà domani ma non riesce a prendere sonno. La tazza è colma di una tisana bollente che diffonde profumo, ma gli occhi suoi sono fissi sui vetri della finestra che guarda all' esterno. Il davanzale è di gelido marmo, forse il calore o forse l' umidità annullano la possibilità di vedere, dunque una mano passa a raccogliere acqua. Rimane in piedi in quei pochi momenti che l' umidità impiega a riappropriarsi del vetro, poi di nuovo una mano che passa.
Strana malinconia nella mente, e i pensieri viaggiano attraversando il passato. C' è nei suoi occhi e nel cuore. Capire cosa successe senza analizzarlo, senza dividerlo in scomparti per riflettere su dove si sia persa l' opportunità ed un confine stabilito fra l' amore e la noia sopraggiunta. Come quel fango che scende via il freddo si impossessa di tutti quei momenti singolarmente, spezzando la routine di quello statico periodo dove egli esplora, dove egli affiora. Le luci sono esplosioni di nuvole, quei lampioni di cui non si vede la fine al terreno sembrano aliene, come sospese sollevano polveri d' acqua. Edifici come colonne, analisi del prospetto ed i confini si dilatano metrici. Giova un sorso di liquido caldo per uscire dal torpore che l' oblio consuetudinario incatena. Crepitii di grondaie accompagnano piogge a caduta, persiane socchiuse come le idee lasciano entrare un lago nero di pensieri di ieri. Un luminoso cielo assume toni violacei per poi scatenarsi in un gutturale suono cupo che sembra vomitare e poi ringhiottire ciò che fu. Scende insieme e gonfia canali e rii, agglomera suggestioni fuggendo dal vissuto reale per gettarsi in un' alba che dal viola insedia l' arancio. Madido di sudore e di sabbia, carico come un masso, una pietra dai contorni di nuvole salmone. Si accorge che è quasi giorno, pizzica e poggia, sfiora e si cuoce con quella tazza che adesso è più fredda. Adagia le labbra sul vetro ed un simbolo pioggia protegge. Si lega all' elemento trasparente affinché possa credere anche solo per un istante di poter uscire e riuscire ad essere tutto. Ciò che ha osservato adesso lo vede, solo adesso che è giorno l' entità eletta che lo stava guardando si apre, e dei suoi destini incontra il sogno di quel che si aspetta. Pensarsi attraverso le cose, un riflesso è un pensiero, un riflesso è uno specchio, un riflesso è scoprire se stesso.

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15/10/14

01 Febbraio 1998: Napoli-Lazio.




       L' ennesima trasferta. La più strana.
Forse perché quel giorno avevo chiesto a Maria Grazia di accompagnarmi alla stazione. Lei non aveva esitato un istante, aveva annuito e con la sua Peugeot bianca eravamo andati a Termini. Mai avrei immaginato di ritrovarmela, dopo averla salutata a Via Marsala, mentre stavo prendendo un caffè al bar.
-Vengo con te- disse. -Non se ne parla- io risposi. Lei non sapeva nulla di pallone. Doveva desistere dai suoi propositi, per forza.
Era Domenica 1 Febbraio del 1998, la trasferta era a Napoli, ed i tifosi partenopei non erano fra i più accoglienti nel novero nazionale. Va detto in realtà, che anche a noi laziali loro non erano affatto simpatici. Questa antipatia affondava le proprie radici in questioni lontane due decenni e più e, se ce ne era bisogno, ad aggiungere benzina sul fuoco c' erano stati anche svariati anni di gemellaggio fra loro e quei simpaticoni dell' altra sponda del Tevere. Non era esattamente una partita da affrontare in treno portandosi appresso una fanciulla, anche se col carattere di Maria Grazia.
Quello che dissi non servì a nulla. Lei aveva già fatto la sua scelta, prese dei bocconcini di pollo e si recò a fare il biglietto. Io mi rassegnai. Ci stavamo frequentando da qualche mese, lei piaceva ad un ragazzo che conoscevo. Una volta capitammo in discorso ed io tentai di sponsorizzarlo, però, come spesso accade, gli argomenti precipitarono e ci ritrovammo a vivere una relazione.
Era terribilmente cocciuta, e questo mi piaceva da morire. Sapevo che mi sarei caricato un fardello impegnativo per quella trasferta, ma non avevo modo di controbattere alla sua decisione.
Il treno partì puntuale. Circa un migliaio di laziali si erano accomodati su quella diligenza gusto cuoio. Mentre salutavo i ragazzi che conoscevo che si avventuravano nel via vai del corridoio, ero profondamente imbarazzato da quella presenza femminile. Per me era la prima volta, e sarebbe stata anche l' ultima.
Ero preoccupato e pensavo a cosa avrei potuto fare una volta giunto alla stazione di Campi Flegrei. Ero stato a Napoli parecchie altre volte e gli arrivi, il cancelletto verde da passare uno alla volta e quel tragitto che portava alla rampa del settore ospiti lasciandosi a sinistra i padiglioni della Mostra d' Oltremare erano stati sempre parecchio turbolenti.
Il quartiere di Furigrotta, in altre occasioni, aveva preso le sembianze di un alveare dal quale queste operose api, gli scugnizzi delle curve A e B, si dimenavano rumorosamente, lanciando di tutto come si fa con il riso ad un matrimonio. Quando questo succedeva, di solito un nutrito e compatto gruppo di nostri tifosi rispondeva staccandosi dal corteo e caricando e ricacciando questi piccoli insetti nelle vie dalle quali erano apparsi. Sinceramente sperai che quella sera non scoppiassero tumulti, e mi arrovellai il cervello su cosa avrei dovuto fare nel caso per proteggere Maria Grazia qualora fosse avvenuto.
Questi miei nebulosi pensieri mi sollevarono da tutto. Forse anche per questo quel treno volò, tanto che mi accorsi di essere a Bagnoli, qualche centinaia di metri prima della stazione di Campi Flegrei. L' apatia che mi donò quello stato mi stava tutt' ad un tratto abbandonando, e col suo venir meno montava l' ansia quando voltavo lo sguardo e mi rendevo conto che lei era li per davvero.
Lo stridio dei freni e quella puzza di ferro e carbone succedettero ai cori contro il Napoli ed a quelli per la Lazio, intonati dalle nostre leve affacciate ai finestrini. Un treno di mille persone e' lungo a fermarsi, vedevo negli occhi di Maria Grazia lo stupore per una situazione nuova. Per alcuni istanti sembrò affascinata da quanto stava succedendo, ma dovevo prepararla a quello che sarebbe potuto succedere: un velocissimo vademecum sul da farsi in caso di problemi.
Volevo godermi un pò di Lazio anche io, mi affacciai in un piccolo spazio che si venne a creare su un finestrino, gli insulti volavano mentre il treno non si era ancora fermato. Maria Grazia mi chiedeva cosa stava succedendo. Era più bassa ed oltretutto non le avrei mai permesso di mettere la testa fuori, qualche bontempone avrebbe potuto tirare qualcosa verso il treno... Vidi un plotone in tenuta antisommossa in attesa del nostro arrivo. Qualcuno era nell' atto di indossare il casco, altri sbattevano i loro manganelli nei palmi delle loro mani coperte da guanti. Era come se ci stessero dicendo che ci stavano aspettando, mentre i funzionari, distinguibili dagli abiti civili e dalle radio, sebbene indossassero i caschi anch' essi, si voltavano nervosamente impartendo ordini alla rinfusa.
Era la prova del nove, la prima situazione critica. Cosa sarebbe accaduto alla discesa dal treno dei nostri tifosi? I laziali pretendevano spazio, la Polizia ed i Carabinieri spingevano per non darlo. Iniziarono le danze. Immediatamente le frange più vicine dell' una e dell' altra parte iniziarono a scontrarsi, la Polizia arretrò quel tanto da poter permettere ai tifosi di incanalarsi nel sottopassaggio che portava all' uscita.
A quel punto gli animi si placarono e l' ingresso nel sottopassaggio dei primi tifosi avviò il passaggio del resto delle persone. Il buongiorno non era stato buono, pressato nella masnada di gente guardavo lei, che aveva lo sguardo preoccupato di chi aveva iniziato a considerare le conseguenze che la scelta di seguirmi avrebbe potuto generare. Era senz' altro la prima volta che Maria Grazia aveva assistito a dei tafferugli, sebbene fosse stata una manciata di secondi. L' espressione del suo viso, ad un tratto, era mutata totalmente, ed allora ero io che in quei momenti cercavo di mantenerla calma. Altri agenti erano fuori, sul piazzale antistante la stazione, Piazzale Tecchio. Quella era la testa, coloro coi quali c' erano stati problemi, la coda.
Il corteo iniziò a muoversi solo quando anche l' ultimo laziale fu uscito dal cancelletto verde laterale, a destra, rispetto alla struttura della stazione. Facemmo per andare e la solita "L" che porta verso la Mostra d' Oltremare. Avevo detto a Maria Grazia di mantenersi sempre vicino a me, e lei, dopo aver visto quanto successo prima, aveva annuito. Ci approssimavamo all' altro punto critico dove negli anni passati c' erano stati problemi, prima della rampa che sale al settore ospiti. Spesso dal viale al fianco della Mostra d' Oltremare si erano affacciati dei tifosi del Napoli in cerca di paga, ma tutto sembrava tranquillo, quando l' esplosione di una potente bomba carta sull' altro versante, ad una distanza di duecento metri circa, alla nostra destra, fu il biglietto da visita di un folto gruppo di tifosi napoletani, che stavano cercando di rompere il cordone di Polizia che faceva da cuscinetto dal loro lato fra le due tifoserie. Alla vista della scena, quasi a voler difendere l' oltraggio dell' accesso al castelletto, i nostri cominciarono a fare altrettanto con la schiera di agenti che presidiava il nostro fianco. A quel punto l' intero corteo iniziò a muoversi come una massa magmatica senza pace in tutte le direzioni, io presi Maria Grazia sotto braccio e le misi il mio cappello sulla testa, temendo lanci di pietre o monete. Lei obbediva silente a tutto quello che le dicevo, ma in realtà avevo anche un altro aspetto da considerare: i napoletani avevano preso un pò di campo, ed i nostri avevano fatto lo stesso. Le due frange si erano avvicinate notevolmente e ripetevo a me stesso cosa avrei dovuto fare qualora i due gruppi fossero venuti a contatto, il rischio era concreto, ma ragionare fra quelle urla, le manganellate degli agenti, questa massa agitata che si dimenava in un senso e nell' altro, era difficilissimo. Del nostro migliaio almeno trecento avevano deciso di ribattere all' onta di essersi presentati dei partenopei, e volevano giungere a loro per poterli ricacciare direttamente. Di la lo stesso, si avvicinavano agli agenti, ingaggiavano scontro, per poi riparare indietro e ripartire. Arrivò uno dei momenti di stanca in cui la grossa parte degli agenti a noi dedicati ci pressò verso la parte alta della rampa, dove allo strappo agli inservienti era stato ordinato di aprire i cancelli e, letteralmente, buttarci dentro lo stadio. Questo avvenne con qualche ultima carineria che ovviamente coinvolse persone in testa al gruppo, cioè le ultime a voler cercare scontro coi dirimpettai. Il bilancio fra i nostri fu qualche testa rotta, parecchie braccia livide ed una sudorazione nervosa dovuta allo stress sopportato. Anche qualche agente si fece refertare per qualche colpo subito: entrammo.
Maria Grazia era seduta e rimaneva in silenzio. La prima cosa che le dissi, ovviamente, fu che l' avevo avvisata che Napoli-Lazio era la partita meno indicata per decidere di seguirmi. Stava riflettendo, ma iniziò subito a commentare quanto avvenuto, e la cosa strana e' che lei comprese, pur avendo un occhio critico, che quanto successo era accaduto per estrema volontà di mostrare agli altri quanto l' affetto per la propria squadra fosse maggiore, e avrebbe spinto "oltre" le singole velleità, pur di raggiungere lo scopo.
Devo dire che in quel momento mi spiazzò. Avevo parlato molte volte con delle persone che mi chiedevano i motivo per cui io mi ostinassi a seguire la Lazio nonostante gli incidenti che Domenica dopo Domenica si susseguivano sui vari campi d' Italia. La risposta più carina che ricevevo dall' interlocutore era che evidentemente piaceva menar le mani anche a me, o comunque trovarmi nei problemi. Non solo Maria Grazia non si era fermata alla squallida facciata, ma oltre ad aver ragionato, aveva anche capito, tant' e' che fu proprio lei a suggerirmi quella sera, mentre aspettavamo l' inizio della partita, la metafora del Forte.
"Tu hai un Forte, e il tuo avversario ne ha un altro. Tu parli del tuo Forte come se non ce ne fossero di uguali, l' avversario fa altrettanto. Se i due Forti sono sufficientemente lontani da ignorarsi allora può darsi che non accada nulla, ma se così non e' l' uno vuole mostrare all' altro che il suo è migliore, ed e' disposto a tutto pur di farlo.".
Nello stadio ci fu un tifo incessante da parte nostra, loro avevano i soliti , radi, boati, ma la partita ebbe solo sussulti inutili. Quella sera la Lazio giocò bene, ma la sfida fra Casiraghi e Taglialatela fu vinta da quest' ultimo, il quale parò tutto, anche l' indicibile. Alla fine del match portammo a casa un punto e, come da copione, rimanemmo nel settore chiusi e presidiati come carcerati, in attesa del deflusso dallo stadio S.Paolo dei tifosi della squadra di casa.
La noia e la stanchezza affiorarono e qualche scaramuccia e qualche insulto fecero da corollario all' apertura dei cancelli per riportarci verso la stazione dei treni. A presidiarci gli stessi agenti dell' andata che, visto quanto successo, non permettevano il minimo accenno a qualsiasi richiesta che subito alzavano la voce se non il manganello. Il ritorno in stazione fu tranquillo. I tifosi partenopei evidentemente si erano ricacciati nell' alveare da dove li avevamo visti uscire. Arrivati ai treni però, un ulteriore parapiglia divampò fra agenti e un nutrito gruppo di tifosi, che rimproverava ai primi di aver colpito nel mucchio senza avere contezza di chi faceva cosa. Gli agenti ebbero il loro da fare per far risalire tutti sul treno, nel mentre io e Maria Grazia ci eravamo impossessati di uno scompartimento, avevamo chiuso le tendine e stavamo pregando che nessuno ci venisse a bussare. Era tardi, eravamo stanchi, ed avevamo voglia di dormire.
Il treno partì e quello fu il segnale che noi eravamo riusciti nel nostro intento, la velocità non era sostenuta. Dopo poco si fermò di nuovo, noi pensammo ad un semaforo sulla ferrovia, altri sostennero nei giorni successivi di un freno tirato, eravamo ancora troppo lenti per comprendere la natura della nostra sosta. Fatto sta che al sentire i cori dei ragazzi sul treno, dai palazzi di fronte persone cominciarono ad affacciarsi ed a gridare improperi contro gli occupanti. Fu il putiferio. Si aprirono le porte di vari vagoni, la gente inviperita da ritardi, manganellate ricevute e trattamento, si accalcava in prossimità delle uscite. Iniziò una fittissima sassaiola da ambo le parti, volarono tavole di ponteggi e pietre ruppero finestre. Furono 10 minuti di pura follia. Io e Maria Grazia ci guardammo. Iniziò una corsa a ritroso di tutti i ragazzi che erano scesi. Dopo qualche istante cominciarono a salire sul treno degli agenti, mentre le grida dai palazzi continuavano. Il loro lavoro era aprire gli scompartimenti e manganellare qualunque cosa si muovesse. Fecero così per tutto il treno, non risparmiando nessuno tant' e' che ci fu nei giorni seguenti, anche un' interrogazione parlamentare dell' On. Martini perché fosse giustificato l' operato delle FF.OO. Furono picchiati anche dei disabili. Tre persone furono ridotte in gravi condizioni ed a Pozzuoli, quando il Reparto Mobile di Napoli ci consegnò a quello che ci avrebbe portato a Roma, vidi discutere a male parole i due responsabili, quello che ci prendeva chiedeva spiegazioni di quanto avvenuto alla vista delle tumefazioni sui volti delle persone e sul numero delle teste rotte. Pazzesco.
Quanto a me e Maria Grazia, fummo probabilmente gli unici su quel treno ad essere graziati. Quando la porta dello scompartimento si aprì, il manganello era già alto, ma fortuna volle che alcuni attimi prima simulammo un bacio per tentare di sfuggire a quella che fu definita dai giornali nei giorni successivi "una mattanza" . Funzionò. Un altro agente tentò di entrare, ma il primo, vedendoci così, richiuse la porta proseguendo la processione. A quel punto ci baciammo davvero.
Quella sera tante persone maltrattate e stanche presero altri colpi ingiustamente. Quella sera Napoli Lazio divenne uno scontro città contro città come per la verità mi era già capitato di vedere in passato, anche se mai così pesante.
I poliziotti non furono leggeri, ne tanto meno giusti. Se non hanno mai risposto a nessuno per quella sera credo sia uno schifo, perché ciò che vidi quella sera, e ascoltai e lessi nei mesi successivi, mi allontanò parecchio dal concetto di tutela del cittadino.
Il treno fermò alla stazione Tiburtina alle 04.20 del mattino. Non era ancora finita, degli autobus navetta ci riportavano alla stazione Termini, dalla quale eravamo partiti. Raggiungemmo la macchina e Grazia mi accompagnò a casa. La salutai e mi avviai, con la promessa di vederci a lavoro l' indomani.
Sul portone di casa pensai a quello che avevamo passato, personalmente feci il paro con quattro anni prima. A casa mio padre e mia madre dormivano, io aprii la porta piano per non svegliarli, mi spogliai, raggiunsi il bagno e lavandomi le mani mi guardai allo specchio. Ero stanco, passai le mani piene d' acqua sul viso ed espirai forte, ripetei il movimento insaponandomi di nuovo il viso e risciacquandolo. Mi voltai per prendere l' asciugamano e riconobbi di fronte la sagoma di papà che sottovoce mi disse: "bentornato". Io lo abbracciai ed andai a dormire.

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Er grand' omo.

disse er sindaco foresto:
vò levà li sampietrini
così l' urbe mette in sesto,
e più rompe i motorini

se Pasquino arisponnesse
ar cospetto de tant' omo
je direbbe certamente:
lassa perde, quello e' 'n dono

poi ortre ar bello c' e' er concreto
a volella dì pe 'ntera
si continua cor decreto
mica poi ce vò na sera

tutta sta fatica vana
pé leva sti sampietrini
roma e' piena de artre piaghe,
ce sarebbero i tombini...

pensa quanti allagamenti
se saremmo risparmiati
se li manici de scope
ai netturbini avesse dati
là pè Ottobre co le piogge
aristamo a car' amico
caro sindaco Marino:
nella piaga metti er dito.

Roberto De Sanctis - All Right Reserved

03/10/14

Elaine.




       Passeggiavo da solo per il parco Bois de Boulogne. Vedevo alternarsi alla strada quel magnifico verde ai campi dello stadio del Tennis del Roland Garros. La meta era il Parco dei Principi, lo stadio dove il giorno dopo avremmo giocato contro l' Internazionale Milano.
Avevo da poco incontrato Bruno Pizzul. A quel punto era stato chiaro che avremmo perso la finale di Coppa UEFA. Serpeggiava in molti appassionati di calcio, me compreso, il fatto che non fosse proprio un amuleto, ma la speranza di sfatare questa diceria montò, insieme ad una strofinata di gioielli che credo abbia generato calvizie sulla parte.
Il Parco dei Principi era desolatamente vuoto, ma lo avevo voluto visitare il giorno prima per capire cosa mi avrebbe aspettato l' indomani. Quando ti vidi camminare verso di me, i miei occhi si catalizzarono su quel ciuffo di capelli arancioni che non obbediva alle regole dell' elastico con il quale li avevi legati. Non so perché parlai, avrei dovuto tacere ma le parole scivolarono via come fra l' argilla e mi sentii piuttosto imbarazzato, mentre quel tuo sorriso sciolse tutto in un momento.
L' inglese non era il mio forte, e per la verità non lo e' neanche adesso, ma evidentemente le mie parole ti fecero sorridere e da quel momento pregai di rivederti la sera sugli champs élysées.
Mi avevi incontrato in abiti da lavoro. Quel paio di jeans e quel bomber mi erano sembrati poco appropriati al nostro incontro. Io ero lì per la Lazio, ma mai avrei pensato di sentirmi in quel modo come mi aveva fatto sentire il vederti.
La sera fu differente. In una trasferta che rimarrà unica proprio per questo, avevo deciso di portare un abito elegante con me per cenare in un posto più a modo. La scelta ricadde su "le bistro romain", pieno all' inverosimile e dove aspettammo non poco per poter sedere. Coi miei amici lì, con te sotto l' Arc du Triomphe, a cento metri di distanza, sarebbe stato fantastico. Ci eravamo dati appuntamento per le nove, durante la cena pensai più volte se fossi arrivata anzi, per la verità, non credevo saresti venuta. Ti immaginavo così bella che mi ripetevo che non ci saresti stata per non illudermi troppo.
Tardammo la cena ed io, spiegato tutto ai miei amici, mi congedai dopo gli antipasti. Le nove erano giunte, tentai una sortita con la promessa di ritornare in breve se non ci fossi stata.
Ogni scalino per discendere sembrava un battito di un pendolo. Mi ero catapultato in un istante sulla scena di un film western nel bel mezzo di una resa dei conti e tutto era rallentato in moviola, come per aumentarne la pressione e la solennità. Ad un tratto potevo distinguere anche il fischio del vento, mancava forse solo quella paglia che rotola via sul terreno asciutto.
Mi attestai sulla parte sinistra del viale. Spalle alla "défense", sulla destra al centro l' Arco di Trionfo e sullo sfondo di quell' impressionante rettilineo da parata, seppur sera, distinguevo nitidamente l' obelisco di Place de la Concorde ed il Louvre. La bellezza del punto dove stavo nutrì i miei occhi per alcuni secondi, ma poi arrivò il pensiero tuo a spazzare via tutto il resto, ed il fatto che non ti vedevo ancora arrivare mi stava facendo annaspare. Vidi l' ora: dieci alle nove, manca ancora, magari ora arriva. E se invece non viene? Potrebbe tardare. Mi voltavo frenetico intorno, poi sedevo su quella panchina eletta a mia base. Cercai invano di rilassarmi, ero in pieno clima partita  ma il match era di quella sera.
"Roberto". Mi voltai e tu sei apparsa. Quanto eri bella Elaine... ancora un pò di più di come ti ricordavo dalla mattina. Arrossii senz' altro, e credo che tu te ne accorgesti. Il sangue andava a mille e quei tre baci sulle guance ti avrebbero tranquillamente potuto incendiare. Anche tu avevi un rossore, pensai che non fosse emozione ma un imprinting avuto dalla tua terra, quelle carnagioni bianchissime delle contee d' Irlanda.
Fui felice. Iniziammo a passeggiare e dimenticai tutto quanto, Parigi compresa, anche se quella notte quella città fu una straordinaria complice. Ci tuffammo in una conversazione di gesti e linguaggio incontrato che rimase unica anch' essa nel mio ricordo. Un misto di inglese, francese e lingua dei gesti ci accompagnarono per quei quattordici chilometri che calpestammo insieme conoscendoci. Quello che accadde dopo quei quattordici chilometri fu una straordinaria libertà ed un amore differente da tutto quello che era stato e da quello che sarebbe giunto poi. Maledetta distanza!


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