25/03/15

Cupo mattino.




            Fragrante mattino, nello stesso umido di una pioggia insistente vedevo macchine scorrere in fila indiana oltre una nuvola di vapore che la stessa acqua caduta creava. Fra i pini e i castelli potevo osservare le mamme che come formiche accompagnavano a scuola i loro figli. Quella lingua d' asfalto era gialla, spenta come gli individui costretti a quella inutile processione. Nelle giornate dove il tempo era buono lì si poteva vedere sorgere il sole, e, se ci si alzava all' aurora, la magnificenza dello spettacolo faceva mescolare i colori del cielo in evanescenti ombre di rosa ed azzurro.
Ma il cielo era plumbeo quel giorno, a tratti coltre di fumo, e quell' acqua scendeva uniforme rimbalzando sul piano e sulla vegetazione. Dava il ritmo al tempo, lo scandiva come se fosse una lancetta di orologio, mentre il campo visivo veniva interrotto qua e la da qualche albero e qualche tetto che ne limitavano un' osservazione più profonda. Nulla a che vedere col profilo di questo insieme che poteva averne qualcuno incastrato nel traffico del mattino.
Mentre la fila indiana lentamente procedeva immaginavo il rumore del riscaldamento per non far appannare il vetro, oppure di una radio accesa. Tutto doveva essere celato, senza poter avere contezza di quello che avveniva intorno. Non e' solo un altro punto di vista, la mente si impegna a seguire la strada, ordina le mani a tenere il volante, a tracciare una traiettoria con l' ausilio di marce e di freni, e il disegno d' insieme svanisce, sulla radio come sul vetro appannato, o sullo specchietto retrovisore a un incrocio.
Zampillava sulla tettoia quell' acqua apprezzandone il suono, tracciavo una nuova linea da lì in sù alle nubi, un contatto fra me e quelle grigie esplosioni di cupo. Le potevo cavalcare fino ad osservarne la parte al di sopra, dove tra correnti e turbolenze ad un tratto mi si mostrava il cielo azzurro scaldato dal sole lontano. Ruggiti di fiumi in piena, ordinati e costanti, attraversavano il terreno rovesciandosi in quel cielo piatto. Mi perdevo ogni tanto sulla linea dei palazzi al mio orizzonte, andando poi a contare chi aveva spento già le luci e chi invece non lo aveva fatto. Poi passavo alle auto, una per una, visitate quasi come fossero oggetti di desiderio, e tutti quei vetri nebulosi trasferivano l' umido del cielo dentro altri microcosmi dilatati verso idee determinate di operosità e di guida, volti alle proprie destinazioni.
Come sollevati dal tempo interrompevano i pensieri, si recavano come automi alle rispettive sedi di lavoro, perdendo il contatto con l' albero, la foglia e la grande energia delle nuvole basse. Rigagnoli d' acqua che adesso passano dove prima era asciutto, nelle madide strisce  e nei solchi viaggiano come barche alla deriva le foglie essiccate, che dove non riescono ad avanzare formano dighe che vanno a ingrossare il letto dei solchi. Catene liquide perpendicolari al terreno precipitano in un vapore esploso vicino alla fine. Fiotti di fumo dalle auto appannate contribuiscono ad imbrunire il mattino. L' asfalto calpestato rompe in piscine di acqua putrida dove e' bene non mettere i piedi, e mentre gli ombrelli sgargianti sfilano rompendo la tenue nebulosa prospettiva, lo sguardo va a quell' albero di noce che sta lì da sempre. Al centro dell' insieme questo crepa grigio argento divarica i suoi rami fino ad intercettare il cielo, mentre io mi immagino con un pennello in mano a ridipingere su tela per fermare, immortalare quelle linee dei rami più alti che vanno a confondersi con le nuvole cupe. Poi in un istante un lampo fa lo stesso, quasi simmetrico, e lo incontra squarciandolo per rinnovarsi in esso ancora una volta ed io lo vedo adesso rovesciato. Come una fenice rinasce dalle sue ceneri in una espressione prospettica di un clima inclemente avverto questa strana sensazione di rinascita in uno stadio di morte apparente.

Roberto De Sanctis - All Rights Reserved







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