15/12/14

Castello.




       Il glicine sporcava a terra. Quell' immensa mole rosa e violacea di campanelle si era liberata dal suo guscio ed aveva prodotto una montagna di bucce sul terreno. Noi eravamo passati facendo attenzione a non scivolare, la pioggia delle ore precedenti aveva rammollito questo tappeto sul quale, senza attenzione, i nostri corpi non si sarebbero di certo adagiati. La sosta a destra e la fila ci permetteva di sentire quei rumori di ferraglia sbattuta, mentre il costante friggere accompagnava come il rumore di una cascata dal letto ampio. Il capanno si apriva a noi con le sedute in ordine e quello sporco rurale che ci sapeva di casa, poco importava se ai lati la tenda era aperta e ogni tanto il vento soffiava. L' affaccio sul fiume e quella pellicola antica riaffiora. Quegli attori degli anni '70 e lo schiaffo di una eco mostruosa, mentre adesso quell' angolo e' il nostro, nessun' altro all' affaccio si posa. Esclusivo ed ultimo, o meglio, degli ultimi. Goderne a pieno era un vanto, e come un segreto di pochi, a pochi altri si tramandava. Sedute di legno e un biliardo che pende e accompagna giornate lievi. Un camino bollente e poltrone, poi una voce: e' il padrone. Quella barba e la strana andatura, un sorriso, fratello e cognata, il saluto e uno spicchio di sole che sta entrando dalla vetrata. Qualche passo e mi affaccio al balcone, molti alberi piante e una riva. Guardo in basso e il rumore del fiume mi dondola, ipnotico come quel fuoco. Seduti alla tavola arriva, scorre il fiume, entra a Roma, si ammira.

Roberto De Sanctis - All Rights Reserved

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