21/09/14

Il bambino di Trinidad.



         I miei occhi si erano fissati sulle mani di quell' anziana signora. Sinuose stringevano il collo di quella creta che stavano lavorando ed affinavano per poi tornare a darle quell' apertura necessaria per ciò che quella creta sarebbe divenuta: un vaso. Era la prima volta che mi capitava di osservare la lavorazione della terracotta ed ero rimasto veramente colpito da quanto avevo appena visto. Mi sarei volentieri seduto a parlare con lei per qualche minuto, ma eravamo nella gabbia dei criceti, impacchettati per un turismo improvvisato nella città di Trinidad, e la casa coloniale stava aspettando tutto il nostro gruppo.
Avevamo trascorso la notte nel vecchio sanitario, che campeggiava al di sopra di Trinidad. Era stato trasformato in un grande albergo, di lusso, si direbbe, per quelli che erano gli standard del luogo. Avevamo consumato una favolosa cena in una palafitta di legno tinteggiato di bianco costruita in piena giungla, poi ci eravamo spostati a bordo piscina per vedere uno spettacolo di quelle musiche caraibiche che a lungo andare finiscono per rincoglionirti se non le sai almeno ballare un pò. Insomma, eravamo in un posto più che giusto. Solo alla mattina, riscendendo, notai che quella imponente struttura bianca spezzava dolorosamente uno scenario di giungla ininterrotto, che si fermava soltanto tuffandosi negli straordinari colori pastello delle case della piccola cittadina.
Il nostro gruppo si stava muovendo. Quando arrivammo davanti alla casa coloniale c' erano dei bambini che giocavano con la palla. In particolare mi incuriosì uno di loro, avrà avuto nove o dieci anni. Non ci aveva chiesto soldi come altri avevano fatto a Cardenas e a Cienfuegos. Era scalzo, non indossava nessuna maglietta, aveva soltanto un paio di bermuda di un colore fra il verde militare ed il beige. Io non pensai per un solo istante che lui potesse essere poverissimo, il suo sorriso riempiva i suoi denti fino a farli brillare al cospetto della sua cute nocciola. Lo chiamai e lui si fece avanti, gli chiesi se potevo avere una foto con lui, lui fece cenno di si con il capo. Presi la macchina fotografica e la consegnai ad Adriana, una ragazza che era col nostro gruppo, lui si affiancò, io tolsi il mio cappello madido di sudore per poi rindossarlo,  gli misi una mano sulla spalla ed ebbi il mio scatto. Ringraziandolo misi mano al marsupio, tirai fuori un paio di dollari americani, e glieli donai per il disturbo. Lui corse via ed io fui molto contento di quello scatto.
Mio zio Ennio era già dentro con Maurizio e la moglie. Adriana ed il marito stavano aspettando me, e poi lei ci aveva fatto la foto...Quei tre ragazzi di Paderno e Bresso dovevano essere entrati anche loro. Ci avviammo.
Non apprezzavo particolarmente lo stile coloniale, anzi, per la verità lo detestavo e lo detesto, ed il fatto che fra Havana, Matanzas, Cardenas, Varadero e Cienfuegos fosse la decima casa coloniale che visitavo, mi fece giungere in quella casa in maniera piuttosto approssimativa. Odiavo quelle sedie e quei tavolini così difficili nelle forme, così ondulati, e quei tessuti mi facevano sembrare tutto troppo distante dalla semplicità con cui vivevano queste persone. Oltretutto avevo ancora negli occhi l' assoluta magia delle mani che sfioravano la creta modellandola sapientemente, fatto sta che fui fuori in qualche minuto.
Uscendo non mi accorsi subito del brusio che c' era, ma incrociai lo sguardo con un altro ragazzo che faceva parte del gruppo di visita di noi criceti, e guardava insistentemente verso la mia destra. Voltai il capo e la scenario fu sinceramente preoccupante. In cima alla strada di ciottoli levigati, un nutrito gruppo di persone stava fermo guardando verso di noi. Da una più accurata osservazione di tale gruppo, scorsi al centro un uomo nero molto alto, e alla sua destra, in basso, un familiare bimbo color nocciola che stava puntando il suo braccio evidentemente verso di me.
"Forse avevo sbagliato a chiedergli la foto" pensai, ma non credevo di aver mancato di rispetto ne a lui ne a chi ne aveva la potestà, ed era evidente che quella sagoma d' ebano doveva essere il padre. Allora mi chiesi se li avesse offesi la mia "mancia" per la foto...sta a vedere se quella moneta da due dollari mi aveva messo nei guai? Stando così le cose comunque, ed essendo in pieno consenso con la mia coscienza, vedendo che loro rimanevano lì, mi incamminai verso di loro.
Avvicinandomi li contai, erano quattordici. Il gruppo era assortito, c' erano uomini donne e bambini, alcuni gli stessi di prima che avevo visto giocare. Mi sembrò una di quelle foto di fine ottocento dove tutti insieme si presenziava allo scatto, un quadro di famiglia in una piantagione o qualcosa del genere. Lo sguardo ricadeva sempre sul più insidioso, che ora potevo vedere bene. Aveva delle ciabatte di cuoio, pantaloni avana ed una canotta lisa dello stesso colore dei pantaloni. Dalla canotta fuoriuscivano corde di muscoli grandi come cime. La struttura di questo individuo era stata scolpita dalla fatica e dal lavoro di generazioni, che avevano modellato il suo codice genetico come aveva fatto la signora con la creta.
Mi presentai. Nel mio dozzinale spagnolo cercai di chiedere se avevo fatto qualcosa che aveva in qualche modo urtato la sensibilità del bambino. Quella bestia consumava termini ispanici come un tritacarne. Una ragazza del nostro gruppo che nel mentre aveva terminato la visita si era avvicinata. Ella parlava lo spagnolo fluentemente e ne avevo già avuto riprova, quindi le chiesi di aiutarmi a capire. Cominciarono ad incastrarsi vocaboli con una mostruosa concentrazione di "s", incastri dei quali io rimanevo ignaro e totalmente assente. Dopo circa un minuto di spiegazioni, si degnarono di interrompersi e di rendere partecipe anche me, che oramai ero l' oggetto delle loro conversazioni, era del tutto evidente.
Continuavo a non capire ed a chiedere. Lei iniziò a parlarmi finalmente nella mia lingua conosciuta: "il signore è venuto a ringraziarti" mi disse. Io le chiesi il motivo, e lei continuò: "quando il bambino è tornato a casa il padre era convinto che quei soldi li avesse rubati e sono venuti qui tutti per sincerarsi del fatto che non fosse così". Io subito mi apprestai a difendere il bambino, ma lei mi disse che lo aveva già spiegato lei continuando: "per questo ti ringrazia. Tu non sai cosa hai fatto...". A quel punto divenni curioso, continuavo a non capire. Lei tacque e iniziò a parlare di nuovo quel padre, in uno spagnolo lento che non feci fatica a comprendere: " La mia paga è di 18 dollari americani al mese. Per la verità noi abbiamo i pesos, che sono la ventitreesima parte del dollaro, però abbiamo anche la possibilità di accedere al mercato nero dove, col peso convertibile, possiamo acquistare al pari valore del dollaro". La mia testa già stava ragionando su quanto potesse essere difficile la vita con quei pochi soldi a disposizione, quando lui continuò: " hai regalato a mio figlio quasi tre giorni del mio lavoro, per questo sono venuto a sdebitarmi!".
Io cercai di dissuaderlo dal sentirsi in debito, dicendo che il mio era stato un gesto per ringraziare la disponibilità di suo figlio, ma lui non volle sentire ragioni e mi disse che lavorava alla produzione di sigari. Quello era il suo lavoro, e quello era quello che mi poteva dare. Tirò fuori un Cohiba, dicendo che lo aveva fatto con le sue mani, me lo consegnò, mi chiese se lo avessi mai fumato. Io risposi di si per non sembrare un bambino, anche se quel momento sarebbe stata la mia prima volta.
In realtà fu molto difficile per me simulare che fumassi, non avevo mai toccato neanche le sigarette e questo tizio pretendeva che dovessi fumare un sigaro con loro...non fui bravissimo a mentire, tant' è che il morso strappò via una sostanziosa parte del tabacco oltre quella che era necessario togliere. Il mio essere così imbranato suscitò una grassa risata collettiva. Credo che ad un tratto tutti avevano capito che non avevo mai fumato e che erano stati i miei ventidue anni a parlare per me. Si allentarono gli animi, per la verità solo il mio,  e li adagiò in un rilassato convivio fatto di rum e di coltri di fumo. Avevo fumato per la prima volta, come avevo assaporato la gentilezza e la dignità di questa gente. Quel sigaro durò due giorni, lo fumai di gran gusto, ma poi non ne volli più sentire. Conservo ancora in una scatola quello scatto con quel bambino, e mi fa piacere ricordare quel giorno.


All Rights Reserved- Roberto De Sanctis
      

Nessun commento:

Posta un commento