26/01/15

L' attimo di Giuliano.




         Avevo ripercorso in un istante tutta la mia infanzia passata sulle figurine dei calciatori e nell' attesa che la Domenica arrivasse per viverla di Lazio. Classifiche e campionati erano ininfluenti fin tanto che era la Lazio, e quando il giorno della partita arrivava ero pronto con la mia sciarpa, mentre mio padre, che mi aveva donato quella passione, frenava le mie ansie per un ritardo che non ci sarebbe mai stato, già dalle 10.00 del mattino. Non volevo perdermi nulla, con una devozione quasi religiosa auspicavo di arrivare il prima possibile per non lasciare niente. A colpirmi era la folla, quell' immenso mare di bandiere che vedevo ondeggiare appena entrato. Il campo era sempre stato un dettaglio, volevo soltanto appartenere a quel mare.
Mi esercitavo energicamente durante la settimana per essere pronto per la Domenica, quando la mia voce di bambino si consumava gridando "La-zio, La-zio, La-zio..." e "Forza Vecchio Cuore Biancoazzurro".
Io, che di vecchio non avevo proprio nulla, ma che insieme a mio padre potevo solcarlo quel mare, un mare amico che però quando la Lazio segnava diventava una tempesta meravigliosa di suoni e folla agitata.
Amavo quei colori. Nei giorni dove l' Olimpico era più gremito si potevano confondere col cielo, e l' unico elemento distintivo erano quei tre pali al di sopra del centro della tribuna Tevere sui quali campeggiavano le bandiere dell' Italia, della Lazio e della squadra che di volta in volta affrontava la Lazio.
Vedere quelle maglie celesti rincorrere il pallone era una meraviglia. Agli occhi miei che avevo si e no sette anni importava poco di vedere Spinozzi ed Ambu e non Rumenigge, Vella invece di Zico o di Brady. E pensare che mio padre mi aveva "battezzato" parecchio tempo prima e che, mi racconta, mi aveva dovuto portare via perché piangevo per i petardi che venivano esplosi. Ma poi tutto era cambiato, ero voluto tornare e mi ero innamorato, da un momento in poi la nostra Domenica fu chiusa per Lazio.
Il campo rimaneva comunque ai margini delle mie fantasie di bambino, ero intento a guardare tutte altre cose, ma un giorno anche questo cambiò. Così impegnato a vedere gli spalti, e l' ovvietà delle nostre bellissime maglie celesti, con pantaloncini e calzettoni bianchi, rimasi di stucco quando una volta la Lazio cambiò la muta. Vidi la squadra entrare con delle maglie con una grande aquila blu al centro del petto, su uno sfondo bianco e sotto una striscia orizzontale che separava il celeste, più in basso sulla pancia. Le grandi ali blu proseguivano sulle maniche e sulla schiena, interrompendosi soltanto per fare spazio al numero dei rispettivi giocatori che la indossavano. Rimasi attonito per la bellezza, ma ancor più perché l' anno precedente avevo visto passare varie squadre all' Olimpico, ma nessuna che avesse un qualcosa del genere. Quel giorno le cose cambiarono, mi resi conto di essere, di appartenere a qualcosa di diverso da una squadra di Calcio. Quelle maglie mi attaccavano a loro, o meglio, sentivo di essere io in quelle maglie.
L' attesa, se possibile, divenne ancora più spasmodica. Un bambino come me che stava crescendo nutrendosi di questa passione differente. Parlavo una lingua diversa dai miei compagni di classe, benché ci fossero altri piccoli tifosi, la mia dedizione non era la loro. Loro tifavano per la Lazio, o per la Roma, qualcuno se non ricordo male anche la Juventus. Io avevo un altro approccio, conoscevo giocatori, ruoli e perfino il nome dei vari campi dove la Lazio giocava. Loro tifavano. Io...la Lazio era mia, volevo appartenerle, come fossi una penna di quelle grandi ali, od il becco, oppure gli artigli, io volevo essere la Lazio.
Apparteneva oramai alla mia sfera intima. Per me voleva dire mio padre e mia madre, mio fratello, o i miei nonni. A casa non c' era spazio per qualcosa di differente dalla Lazio, a cominciare da quello straordinario adesivo al centro del mobile a specchio della sala da pranzo a casa di nonno Giovanni. Mia nonna Pasquina era molto attenta all' ordine ed alla pulizia della casa, c' era davvero poco spazio per elementi che lei non apprezzasse. Quello era l' unico vezzo che aveva concesso a mio nonno e a mio zio Umberto, fratello di mia madre, neanche a dirlo, anche lui laziale.
Quelle domeniche importava poco chi avessimo di fronte. Gli anni '80 per la verità furono anche piuttosto avari dal punto di vista dei risultati, ma per come andavano le cose, gli altri potevano anche non scendere in campo, a me interessava soltanto che ci fossero quelle maglie da poter vedere. Questo stato di cose mutò per forza nell' Estate del 1986. Ad un nostro giocatore fu contestata l' accusa di combine. Il signor Vinazzani, aveva pensato bene di andare ad incidere ancora una volta in maniera pesante sulla storia della nostra squadra rituffandoci nel calcio scommesse.
Fu un' Estate calda sotto tutti i punti di vista per la nostra tifoseria. Sebbene io fossi soltanto uno spettatore, coi miei 12 anni, venni a sapere dei primi disordini di cui avevo conoscenza, un fenomeno del tutto nuovo per me che mi ero affacciato così presto al Calcio. La Lazio era stata prima retrocessa in serie C, poi, in un pomeriggio che mi fece "festeggiare" come ad un gol, ripescata, ma con nove punti di penalizzazione per l' illecito da dover recuperare rispetto alle altre squadre.
Insomma, ci volevano morti, ma nell' impossibilità di colpire un popolo senza che questo lottasse per la propria sopravvivenza, ci fu affibbiata una punizione che ai più sembrava sufficiente affinché lo scopo potesse essere comunque raggiunto.
E' del tutto evidente, ed oggi, coi miei quarant' anni lo e' ancora di più, che quei signori non avevano fatto bene i conti. Non solo non avevano compreso con chi avevano a che fare, chi erano i tifosi della Lazio e quanto viscerale e determinato fosse il loro amore per la propria squadra. Trascurarono il nostro grande senso di appartenenza in primis e, colpevolmente e fortunatamente, il valore di quel signore che aveva in mano le redini dello spogliatoio, il valore di quello spogliatoio ed il valore di lei: quella maglia.
Quell' anno tutti, dall' ultimo dei tifosi, forse io, al primo dirigente, diedero tutto alla Lazio. Questo si tramutò in uno spasmodico ed avvincente rincorrere il campionato che, appena fu appianato o comunque parzialmente risolto, ci rituffò in una crisi nera che ci fece ripiombare nelle parti basse di una classifica che ad un tratto ci aveva quasi sorriso.
Parlando con qualunque tifoso laziale, questo vi dirà che quella stagione non poté non concludersi che da Lazio.
E' la mattina di Domenica 21 Giugno 1987. E' una mattinata calda. Per la prima volta nella stagione non devo insistere con mio padre per andare via prima. Sono appena le 10.30 quando salutiamo mia madre e Daniele per andare allo stadio. Quel giorno sono previste 70.000 persone, fra problemi di parcheggio ed affluenza, mio padre ritiene di arrivare con un anticipo che io ritengo giustissimo. In realtà mi rendo perfettamente conto di quanto sta succedendo, e lo vedo, anzi, lo scruto nel volto di papà. E' la prima volta che andando via bacia mamma sulle labbra. "Luigi, ci vediamo dopo". Lui non dice nulla. Partiamo da casa ed arriviamo a via degli Orti della Farnesina senza proferire parola. Gli pongo delle domande ma si limita a dei cenni. Quando gli dico che vinceremo mi passa la sua grande mano dalla nuca sulla testa, strofinandomi i capelli come fa spesso. Parcheggiamo l' auto e saliamo verso il ministero degli esteri. A quel punto mi accorgo che nessuno ha la felicità solita nel giungere allo stadio, uno strano silenzio circonda quella camminata, dove l' unico brusio proviene dai bambini e dai "regazzetti". Ci sono le bandiere, tutti hanno in spalla qualcosa, ma c' e' silenzio. Entriamo allo stadio e mi accorgo ancora di più di quanto questo silenzio sia assordante. Non siamo mai entrati così presto e mai come quel giorno lo stadio e' già colmo, ma tutti tacciono. Migliaia di bandiere sono aperte, ma  senza sventolare se non per il volere del vento. Sono momenti che non dimenticherò mai, pur bambino avverto la tensione che blocca tutti, e mi faccio trasportare anche io in quel silenzio nel quale parlare, o commentare le bandiere o gli striscioni sembrerebbe quasi fuori luogo.
La situazione e' questa: la Lazio ha 31 punti ed ospita il Vicenza, diretta concorrente, che ne ha 32. il Catania (32 punti) va a Cesena, che deve vincere per poter ambire alla serie A. Il Taranto (31 punti) come la Lazio, ospita il Genoa, che vincendo sarebbe certo di salire nella massima serie. Il Campobasso (32 punti) gioca in casa del Messina, che e' tranquillo. La Sambenedettese (32 punti) gioca a Bari, anch' esso tranquillo. Il risultato di Cagliari-Lecce e' ininfluente col Cagliari già in serie C.
Il Taranto regola il Genoa con un rotondo 3-0 e si porta a quota 33 punti. La Sambenedettese espugna Bari per 4-3 con una "strana" tripletta di Paul Rideout, giocatore del Bari, che però non porta alcun frutto ai pugliesi e va a 34. Il Campobasso non va oltre lo 0-0 a casa di un Messina tranquillo ed anch' esso, il Taranto, si porta a 33. Il Catania soccombe al Manuzzi di Cesena per 2-1 ed e' in C.
Col Cagliari già in C e la situazione incerta sugli altri campi, aspettiamo l' ingresso dei giocatori con la consapevolezza che se non si vince si e' retrocessi. Il Vicenza ha un punto in più e ci sono quattro retrocessioni, rimanere sotto al Vicenza vuol dire rimanere sotto anche a chi ci e' davanti, e conseguentemente retrocedere.
Il torpore dello stadio si era spezzato con un ruggito che non dimenticherò mai, quando la consueta uscita dei giocatori appena giunti allo stadio aveva fatto accompagnare il lento passeggiare sul campo con urla e tensione assoluti. Ma altra cosa avvenne quando gli stessi entrarono con le nostre casacche addosso. Quello e' un altro urlo, ossimoro di quello strano silenzio di quel giorno, che porterò con me per sempre. Potevo vedere le aquile, era caldo, ma potevo vederle. Tutti gridavano impazziti ed ebbe inizio immediatamente quel richiamo degli altoparlanti che quel giorno sarebbe divenuto consuetudine. "E' richiesta la presenza di un medico...presso...". Quel giorno i cuori "scoppiavano" per il troppo amore e per l' eccessiva tensione.
Terraneo, Filisetti, Acerbis, Podavini, Gregucci, Camolese, Mandelli, Caso, Magnocavallo, Pin, Fiorini. A disposizione Ielpo, Piscedda, Poli, Esposito e Rizzolo. Allenatore Eugenio Fascetti. Del Lanerossi Vicenza quel giorno ricordo soltanto un giocatore, ma non ha la maglia rossa. Diventerà il mio primo vero nemico, dopo aver smesso dopo poco i panni di avversario. Si frapporrà tutta la partita fra me e la continuazione della mia esistenza. Il ritratto dell' odio ha i calzettoni ed i pantaloncini neri, una maglia con petto e schiena grigia e maniche nere. Ha un numero uno, nero anch' esso, e dei capelli castani "a caschetto": il suo nome e' Ennio Dal Bianco.
Il patos della partita ha inizio ben prima della partita stessa. L' inizio di quell' arrampicata difficilissima ha il suono di un fischietto, quello dell' arbitro D' Elia.
Ricordo un caldo asfissiante, e col passare dei minuti l' incessante incitamento dei tifosi lasciò di nuovo spazio a quel silenzio, interrotto soltanto da qualche "noooooo" per un miracolo di quel signore che salvava la porta vicentina. Ci fu un' azione nel primo tempo, dove un nostro giocatore, che difendeva sotto la Curva Nord, spazzò un pallone e si sentì, in mezzo a 70000 persone, l' impatto tra la pelle dello scarpino ed il cuoio del pallone. Il passare del tempo era inversamente proporzionale al rumore dei tifosi allo stadio. L' intervallo era come fossimo tutti sospesi, non si sentiva altro che un brusio, o qualcosa di simile ad un mugugno. L' esito incerto ci stava prendendo a tutti a pugni nello stomaco.
Il nuovo ingresso in campo ruppe temporaneamente questo stato di cose, ma per pochi minuti, giusto il tempo di accorgersi che la musica non era cambiata: tutti contro uno. A poco valsero le sostituzioni di Magnocavallo e Pin con Poli ed Esposito all' inizio del secondo tempo. Il Mister cercava di alzare il baricentro e di dare più pressione sulle ali, ma cercando anche di contenere un eventuale contropiede del Vicenza che avrebbe significato la fine.
Quel Dal Bianco continuava a volare, mentre le nostre di aquile, tentavano in tutti i modi di rompere quella porta. Mancavano una decina di minuti alla fine della partita, forse qualcosa meno. Si stava vivendo in un clima oramai surreale, rumori di ambulanze, avvisi e richieste di medici, l' ennesimo "no" gridato dalla folla per un nuovo miracolo sportivo di Dal Bianco e il consueto brusio, più basso, sempre più basso.
Eravamo tutti con gli sguardi fissi sulla danza infruttuosa di quel pallone, quando ad un tratto Fabio Poli, con il numero 14, sulla fascia sinistra spalle alla porta, alleggerì per Antonio Elia Acerbis, il quale fece un cross per Angelo Adamo Gregucci, il quale venne anticipato in un contrasto aereo. Un giocatore del Vicenza catturò il rimbalzo e provò a spazzare ma svirgolò il pallone, Esposito lo riprese, alleggerì appena fuori area per Podavini che provò a tirare, sulla traiettoria Giuliano Fiorini, quel giorno col numero 11, stoppò la palla con l' interno destro aggirando il difensore e con l' esterno dello stesso piede calciò il pallone.
Fu l' ultimo momento in cui capii qualcosa, e fu anche il momento in cui, indiscutibilmente, io sentii il rumore più intenso della mia vita. Tremò tutto e in un momento quel silenzio fu annientato dal caos. Un terremoto mi investì all' improvviso e mio padre, con Maurizio ed altri amici iniziò ad urlare. Non ebbi nemmeno il tempo di capire cosa stava succedendo che ad un certo punto fummo sommersi da un' onda di folla. A quel punto mio padre mi sollevò per proteggermi da quell' oceano che ci stava ammutolendo e preoccupato si incurvò per fare da scudo affinché io non rischiassi. La Lazio, noi, avevamo segnato, da una posizione di privilegio, in braccio a papà, riuscii anche a vedere la sua corsa sotto di noi, di Giuliano, e con lui la cinquantina di persone fra fotografi, giocatori, raccattapalle ed inservienti che erano corsi ad abbracciarlo e ad abbracciarsi. Mi misi a piangere in braccio a mio padre, dalla felicità. Io, quel bambino in quell' aquila che finalmente aveva spiegato le sue ali per liberarsi in volo. Piangevo, in un pianto a dirotto, mentre mio padre a quel punto mi stringeva a se. In quell' istante ho avuto tutto, la mia Lazio aveva segnato ed io ero con papà che mi aveva protetto. Lui per me il più forte di tutti, ed ero certo che lo avrebbe fatto, era talmente forte che quando mi lasciò tranquillo mi sembrò davvero strano che stesse piangendo come me.
Credo che quell' istante Fiorini mi regalò non solo la salvezza, Giuliano in quel momento mi regalò la consapevolezza, la famiglia, il rispetto per le cose importanti ed una dignità mista a una forza mostruosa che mi avrebbe fatto crescere in tranquillità negli anni a venire. La Lazio era una questione intima, come lo e' ancora. E' per questo che quando Sabato scorso ho visto l' aquila di nuovo entrare in campo la prima cosa cui ho pensato sono state le mie lacrime e quelle di papà nel giorno di Giuliano. Ho sentito così caldo che era ovvio che mollare non fosse una ipotesi possibile. Quella Lazio, quell' aquila e la gente di quel momento mi hanno regalato ciò che sono. Sono legato a quell' istante indelebile perché per me vuol dire tutto quello che c' e' di importante. Fra queste cose indiscutibilmente la Lazio.
Ovviamente, da Lazio, vincemmo quell' ultima partita, ma non bastò e fummo costretti agli spareggi con Taranto e Campobasso dove un altro momento da Lazio alla fine riuscì a salvarci dal baratro, ma questa e' un' altra storia.
Sabato sera la Lazio perdeva 1-0 col Milan alla fine del primo tempo. Mi piace pensare che il nostro Mister Pioli, rientrando nello spogliatoio e guardando negli occhi i nostri giocatori abbia ripetuto quella frase: "Ci radunammo, furono dette poche cose, chi vuole resti, chi vuol può andar via. Rimanemmo tutti."
Bentornata a casa Lazio.




Sono grato a Luigi Bigiarelli che l' ha creata, a Fortunato Ballerini che e' stato il suo primo grande Presidente, a Sante Ancherani che l' ha amata, ad Olindo Bitetti e Giorgio Vaccaro che l' hanno difesa, a Fulvio Bernardini che l' ha resa vincente per la prima volta, sono grato alla banda del '74 e a quella del -9, come ringrazio il Presidente Cragnotti per avermi regalato le grandi vittorie ed il prestigio internazionale. Ma se non ci fosse stato mio Padre con me, in quel momento come nel resto della mia vita, non sarebbe potuta essere la stessa cosa. Qualcuno direbbe: "di padre in figlio", io preferisco dire che quando hai scelto, e' lì che vai.


Roberto De Sanctis - All Rights Reserved







Nessun commento:

Posta un commento