29/01/16

Attimi di plastica.




          A saperlo raccontare o per la verità a trovarcisi sciolto dentro, l' impressione che deriva e' quella di essere seduto dentro l' abitacolo così come son gli altri, rispondendo a dei dettami algebrici e totalmente soggiogati da quella lunga fila di auto che ci segue e ci precede.
Osservo i volti, o sarebbe meglio dire "provo ad osservarli" e vedo espressioni spente, figlie di una rassegnazione oramai accentratrice, energicamente vittoriosa, e ai volti si sostituiscono le cupe nubi che annunciano violente piogge. Non so se come lacrime, e nemmeno se copiose od accennate, ma svilisce l' espressione e quello sguardo tende quasi a scomparire, perdendosi dentro una nebbia strana dove bocca e il volto tutto sembrano affondare.
E le persone dovrebbero perfino trovare il tempo di innamorarsi in tutto questo marasma? Amare cosa...? Dipende tutto da quello che si riesce a vedere, e dipende soprattutto da quello che si può far trapelare. Che coraggio! Ma con quale coraggio...? Siamo una società oramai allo sbando! Cumuli di macchine, relazioni di plastica, marmo. Siamo vittime di noi stessi ed assoluti giocattoli della velocità che abbiamo costruito tutta intorno e che ci ha pure sorpassato. Ci sono vento, alberi che cadono, palazzi che cadono. Una società allo sbando!
 Non c' e' più tempo per viverla questa "non vita", non c' e' più tempo per assaggiarla, per goderne, per degustarla, e nemmeno, se si volesse, per vomitarla.
L' elemento più rivoluzionario in questa serata e' una bicicletta, ed un uomo anziano che pedala, vicino al ponte della Musica, mentre tutti noi viviamo di momenti spezzettati, frammenti di identità velate che di tanto in tanto affiorano per poi tornare all' eremo del nulla, ciascuno nella propria auto, aspettando immobili che la noiosa fila di lampioni termini giù in fondo.
E strana sorte, a farmi compagnia, di fianco a me, un bus che sta obbedendo a queste stesse regole. Come un elastico va avanti e poi si ferma, come lo stesso elastico poi avanzo io, per poi lasciarmi accanto quel cartone incorniciato con la sua pubblicità. Ironico il suo numero che quasi lascia intendere pensieri sconci. Sarà un caso, ma e' proprio il numero sessantanove che rallenta e che mi fa pensare che anche questa sera farò tardi.
Vetture impilate, fari che si inseguono ed asfalto che riflette. In tutto questo vedo cumuli di piatta routine, spazzate via le riflessioni argute mi abbandono al senso più noioso che possiedo. Anche l' obelisco del CONI, che statico si affaccia alla sinistra, sembra un qualcosa di vetusto rigettato in questa nebulosa scena che sa di fine. Ci vedo dentro un che di post-apocalittico, come se dell' edera, dei rampicanti lo avvolgessero trasparenti in mezzo a questo festival di inutili clacson e di serpenti di metallo che si avvinghiano con gli individui dentro.
Questi tipici con le luci accese, quasi antiche, quasi stanche, quasi muffe. Come l' asfalto e i dossi, saltano e sopra il salto siamo qui ad improvvisare sopra le radici di questi alberi malati.
Malati come siamo noi, giorno dopo giorno, malati come il nostro tempo: passiamo attraverso, anche attraverso noi stessi. Passiamo soltanto attraverso.
Di tanto in tanto poi lo sguardo divaga e si perde in questo blu offuscato, oltre quel velo color rame che lo altera e lo intacca. Quasi a fuggire si rivolge verso l' alto e allora luci intermittenti di un aereo in transito per pochi istanti mi allontanano da tutto questo, ma sono solo pochi attimi e torno immerso in questo fango, catapultato nuovamente in questo fango di anime, dove non c' e' niente, se non quel marmo e quella voglia di scappare via. Follia, clacson, rumore: follia, e' solo follia! Io sono spinto a rallentare per fare in modo che vada tutto via.



Roberto De Sanctis - All Rights Reserved  

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