13/01/16

Meltin Pot.



         Una porta di alcuni minuti spalancata su quello che sarà il domani. Dove la fredda schiena in legno di un locale cinese fa da cornice ad un assolo di un ragazzo alla cassa mentre batte i conti di un asporto. Mi ha detto che potevo sedere mentre stava prendendo il mio ordine. -Gentile- ho pensato, -ma anche piuttosto risoluto e indifferente.-
Mi guardo intorno, e quella cascata di legno sembra inghiottirmi. Il soffitto comprime i tavoli e gli ospiti, le sedie e le classiche lanterne che dal soffitto scendono giù per far credere che sia Pechino.
C' e' un uomo calvo che aspetta il suo sushi. So che andrà via con la cena prima di me: lui mangia il crudo, mentre io non mi fido. Lo guardo mentre aspetto il mio turno, batte le palpebre dei suoi occhi azzurri rossi in modo veloce. Forse e' stanchezza, o magari e' ragionata follia, ma un sorriso isterico gli si dipinge sul volto, credo inconsapevolmente. Chissà a cosa pensa... ma resta lì, in piedi, impedendo il passaggio di quell' esile ragazza orientale che sta servendo ai tavoli.
Nell' altra sala, quella che prosegue ed oltrepassa la cassa, in un tavolo in fondo un uomo, che sembra il padrone. Uscito da un film sulla vecchia Shanghai degli anni Settanta, ho la sensazione di catapultarmi, scrutandolo, in una pellicola antica, di quelle prime a colori, dove le sagome ed i movimenti si potevano percepire per bene, ma il contrasto con la scena veniva terribile. E' seduto, stanco, a fumare, e subito quella sua azione mi porta a cercare il cartello che credo di aver visto prima. Pochi istanti, poi torno a lui. Indossa solo una canottiera, ha un canovaccio bianco che gli scende dal trapezio ed interrompe la linea della maglia, il pantalone sembra di quelli da personale ospedaliero, e per la verità anche gli zoccoli che indossa mi fanno pensare alla stessa cosa. Resosi conto che lo sto osservando cicca la sigaretta nel posacenere grattandone la testa del tabacco, evidentemente per conservarla e poterla riaccendere più tardi. Non che mi interessi del fatto che stia fumando, come cliente, ma fumare nei locali non e' legale. Rifletto comunque, più che su questo, sulla incredibile parsimonia e sull' assoluta abnegazione nel lavoro di questi minuti esseri che sembrano vivere la loro intera vita dentro i vapori di una pentola a pressione.
D' un tratto la porta del locale si apre, non posso non volgere uno sguardo curioso a chi arriva. Entra un giovane che indossa un casco di quelli a metà. Ha lineamenti italiani, ma e' minuto anch' egli, asciutto come fosse cinese. Evidentemente fanno anche consegne a domicilio. Mi alzo dalla sedia mentre una nuova signora giunge dalla cucina con delle scatole nere, l' intento e' di prendere un biglietto da visita per poter usufruire del servizio la prossima volta. Sotto l' arco a sinistra la scritta c' e': -vietato fumare-, e continua...-i trasgressori saranno puniti...-, adesso sono io a sorridere, mentre quell' uomo rimasto in piedi tutto il tempo sta prendendo le sue buste con il sushi, il sashimi e il tempura. Prendo il mio biglietto mentre paga il conto e gli occhi continuano a battere velocemente. Mi defilo per non essere d' impaccio, mentre la ragazza che serve ai tavoli sta passando con un piatto di riso fumante, e mi seggo dov' ero prima che mi alzassi. La signora saluta, e porgendogli la busta con le sue delizie giapponesi acquistate in un ristorante cinese, gli chiede se vuole wasabi. Egli, estraendo entrambe le mani dalle tasche dei jeans, fa cenno di si con la testa, e la conferma arriva dalla sua flebile voce. Il ragazzo della cassa apre una scatola bianca, prende delle piccole bustine sigillate come caramelle e ne infila tre o quattro fra le scatole nere che porta via. Si conoscono, la conversazione e' amichevole ma un pò distaccata, forse perché lo vogliono le loro abitudini, quelle orientali, o magari perché entrambi hanno semplicemente altre cose a cui dover pensare. Fatto sta, che i convenevoli terminano con i saluti di rito e con i doliti due sorrisi di plastica che si convengono alle maschere indossate su cui spesso mi trovo a riflettere. Chiusa la porta riaffaccia il ragazzo che fa le consegne, ha tolto l' elmetto e il suo volto tradisce una giovane età che forse non arriva ai 16 anni. E' diretto verso il bagno, lo deduco dalla scritta, solita, bianca e rossa -toilette-. La porta si perde fra la parete cadente che opprime, al tavolo a fianco una coppia di ragazzi sudamericani si fanno la corte in maniera elegante e se vogliamo anche pudica. Lui, ceruleo di carnagione, alla maniera dei rappers indossa un' orribile berretto dell' a.s.Roma, con la visiera piatta e girata verso il lato. Ha addosso, seduto al tavolo, un giubbotto con cappello con pelliccia. La dentro ci saranno almeno ventidue, venticinque gradi, e la cucina con i suoi fornelli dai quali arrivano i classici odori delle preparazioni, fa abbondantemente il suo. Credo che i centri termoregolatori di questo ragazzo siano partiti, comunque non suda. Lei, carina, ha un "visetto" da Incas. Con il capo si appoggia su quel ragazzo e si sussurrano parole carine, tant' e' che entrambi sorridono per poi tornare seri e ridere ancora. La scena mi fa pensare al mio primo vero amore, quando con Alessia scherzavamo e facevamo finta di arrabbiarci l' uno con l' altra per poi tornare a coccolarsi nell' istante successivo. Schermaglie di primo periodo, bello agli occhi miei e del mio ricordo, osservare la spensieratezza di due fanciulli non divenuti ancora uomini che si vogliono un bene -pulito-. Arriverà anche il tempo delle delusioni e dei problemi, ma quegli istanti resteranno sigillati in entrambi per il resto dei loro giorni se saranno in grado di raccoglierli.
La musica corre avanti. Una radio technocinese ci allieta l' attesa con un rave del quale farei volentieri a meno, mentre ecco dietro il separè, alzarsi un' altra coppia che non avevo notato e lei, donna moderna, dirigersi verso la cassa per pagare il conto. Lui aspetta al tavolo che i tasti della cassa tornino a suonare, e poi, quasi insofferente, fa un cenno al padrone di casa per andare via. Lei, la donna, cordialmente saluta e, evidentemente cliente, giustifica il loro veloce andare via perché il suo uomo non si sente molto bene. In fondo alla sala, spalle al muro e seduto da solo, c' e' un indiano, forse un bangla, o comunque di quelle zone lì, che assiste alla scena. Per un momento i due sguardi si incrociano e lui lo distoglie subito e continua a scrutare tutta la scena dal suo punto di vista, così faccio io, tornando a quei ragazzi giovani, che a differenza della coppia che sta varcando la soglia per uscire, rimane lì fin quando lui non s' alza per andare a pagare il conto del loro tavolo. Indossa quel cappello agghiacciante, contravvenendo, peraltro, anche alle più basilari regole della buona educazione, ha il cappotto anche se fa caldo, però le scarpe sono decenti, un pò meno quei pantaloni jeans a vita bassa che gli sciolgono le natiche dentro due tasche diagonali messe per bellezza e che non potrebbero ospitare nemmeno un documento di identità tanto sono corte.
Fa la cosa giusta. Paga il consumato per lui e per la sua ragazza. Lei, pudica come all' inizio, lo attende al tavolo, quasi religiosamente. Vedendolo tornare gli stampa un sorriso di quelli che quando sei innamorato ti fanno sciogliere. Lui alza un braccio e lei vi si infila sotto, la cinge, e salutando ancora vanno via: belli, abbigliamento a parte. A questo punto i minuti di attesa si fanno sentire, ed in alcuni atteggiamenti comincio a far sentire la mia volontà di andare a casa con quanto mi stanno preparando. Chiedo bacchette, le famose "chopsticks", per portarmi avanti col lavoro, ma ecco che un ragazzo scuro entra chiedendo se la vettura in doppia fila e' mia. Neanche a dirlo, e' così. Mi precipito fuori per lo spazio di un minuto, il tempo di entrare ed accendere la vettura e mi sposto comodamente, anche se rifletto sul fatto che sarebbe potuto passare tranquillamente (evidentemente un altro insicuro per le strade dell' urbe) per andare ad occupare lo spazio di vetture andate via. Il ragazzo ringrazia ed io con un cenno della mano ricambio il suo saluto. Sto rientrando e quel "ding" della porta che si apre suona come la campana dell' ultima ora. Mi reco alla casa, anch' io fiducioso di riuscire a sentire il concerto dei tasti di cassa. -Il conquibus- chiedo, accorgendomi subito di aver fatto una gaffe. Conquibus, dal latino cum quibus: "con quali". Sono ad attendere in un ristorante cinese che fa anche giapponese del cibo. Ho passato questi miei venti minuti osservando, nell' ordine: dei cinesi minuti che servono piatti ai tavoli, seggono fumando sigarette, e digitano tasti sulla cassa. Ai tavoli ho visto una coppia di sudamericani amoreggiare in maniera educata mentre una coppia di italiani andava via di corsa perché lui non si sentiva molto bene. Ho incrociato lo sguardo di un indiano o pakistano o cos' altro mentre lui stava osservando al pari mio queste pareti che più che di un locale sembravano degli interni di una piramide. Nel mentre ho visto un ragazzo italiano che aveva la corporatura di un cinese, in più, la persona che aveva acquistato giapponese, non aveva smesso un istante di battere le ciglia e muoversi rimanendo in piedi tutto il tempo con applicato un sorriso da ebete. Ed io vado a chiedere il conto in Latino?
Mi sono salvato da questo loop col profumo degli involtini primavera, quell' orribile umido di condensa che avvolge i recipienti di alluminio e la richiesta di salse per mangiare. Sul display della cassa magicamente appare il "conquibus". Il tempo di pagare e andare via, pensando che non sia successo. Ma e' successo! Infatti rispondo che non voglio l' agrodolce ma soia e piccante si.




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