05/11/15

Il muto canto ai quadri di Averin.




       Quella fila di mandorli in fiore ci spingeva diretti dentro un quadro di Alexander Averin, che con le sue tonalità impeccabili di un tenue dolcissimo ci accarezzava tiepidi in quell' abbraccio evanescente proprio di un ambiente impressionista. Come in un quadro passeggiavamo fra le onde che si increspavano e il rumore del vento e del mare, cercando una cornice rigida dentro la quale confinare il senno docile ed abbandonarsi alle conquiste del primordio più grave e intollerabile. Dentro la vernice agli alberi e ai giardini si frapponevano gli ombrelli di signore elegantissime mentre a quei fiori di lavanda si mescolavano dei prati lucidi accarezzati dal quieto alito di morbide colline. Immaginavo le mie voluttà nei piedi scalzi e nelle impronte che lasciavo sulla sabbia. Decise si imprimevano l' una dopo l' altra, come una fila di emotive e sconvolgenti verità per poi velocemente essere sommerse dall' impeto di una matrice nuova che dal mare si lanciava a cancellarle. Ascensori come petali caduti riaffioravano in un rotolarsi livido sotto folate nuove di quel vento che arrivava. Erano golfi dentro un chiuso e placido alveare al cospetto di vallate ricche di ametista e di raccoglitori di lucenti pietre. Come mitili quando marea si abbassa, o come lacero fogliame a terra fa fanghiglia, l' ibrido dei sensi e delle percezioni divagava per accaparrarsi un posto quieto dove madido terreno gli fornisse torba. Ardesia e lame di lucente pietra nera sconvolgevano un immenso carico di duro legno di parrozia. Avido di appigli e crepe, quel duro confine racchiudeva il morbido fluire del mio sangue chiaro, senza che potesse liberarsene o addolcirlo prima di cadere. Scosse elettriche mi dilatavano lo sguardo come se un terremoto mi prendesse per fiaccarmi un pò, leggevo nei suoi occhi tutta quella pena per i miei, come se coppe di vino e calici fossero scorsi ad ungere la mia espressione donandole quell' agitato oblio. Perle, sulla fronte e sulla schiena, scivolavano in rigagnoli di umida rugiada distruggendosi al contatto coi tessuti. Mentre scorgevo ancora gli occhi suoi, di lei, cercare di affogare il mio riverbero dentro i pensieri di un nuovo pennello che passava, per descrivere altro senso ai quadri di Averin. La completezza in quegli istanti, dentro lo sciame candido di tutti quei colori a tratti cardine di dimensioni e pure profondità. Il vertice di quella sinergia fra silenziose curve e dannazioni di quei liquidi essiccati, esplose sulla tela come fossero struggenti attimi di un ricordo andato via, e per quegli attimi restare a contemplare ritrovandosi e torcendosi fra ciò che lo cattura. E quella foto, mnemonica, rimane lì come una stampa di giornale racchiusa dentro la cornice dei miei sogni, che e' il confine fra un disegno ricco di colori impressi e la rigida struttura che sostiene. Si infrange in emozioni vivide di quello spettatore o questo che la osserva. Provo la sensazione di cadere nei pastelli, di fondermi per poi ascoltare il vento che racconta. Mi guardo intorno come se un oblò chiuso mi arginasse l' impeto spingendomi verso pareti di colori mescolati, e poi d' un tratto la sua mano mi raccoglie ricordandomi che l' opera non e' la mia ma che la sto guardando come se volessi viverla da me. Mi abbandono alla sua mano che accarezza, volgo lo sguardo a lei che proprio in quel momento mi innamora.


Roberto De Sanctis - All Rights Reserved


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